Linea d'ombra - anno V - n. 18 - maggio 1987

UN VUOTOSOTTOCOFANETTO GianniTurchetta Dopo la storia di Montanelli, la geografia di Biagi, la filosofia di De Crescenzo (e si potrebbero citare anche le antologie Tityre tu patulae, Andra moi, Le donne, i cavallier confezionate da Mursia rispettivamente per le letterature latina, greca, italiana) l'industria editoriale ribadisce la sua ambigua attenzione per il filone della para-manualistica post-scolastica (o neoscolastica?) con La letteratura italiana (vol.I, "da Francesco d'Assisi a Ludovico Ariosto", Mondadori, pp. 311, L. 26.000) di Enzo Siciliano. Niente a che vedere, checché se ne sia scritto e detto, con le discussioni in corso sulla storiografia letteraria, suscitate dalla monumentale Letteratura italiana einaudiana, dai progetti avviati, con più o meno faraonica emulazione, da UTET, Rizzoli, Mondadori (per non parlare della prossima ristampa con aggiornamenti dell'ormai classico Cecchi-Sapegno di Garzanti), nonché da almeno un paio di volumetti storico-teorici (Brioschi-Berardinelli-Di Girolamo, e un altro a cura di Ottavio Cecchi e Enrico Ghidetti). Esclusa polemicamente, e fin dal titolo, la storicità come sfondo politico-sociale e persino, ahimé, come evoluzione e battaglia delle idee, questa Letteratura italiana di Siciliano nasce viceversa proprio da una programmatica riduzione ai minimi termini del concetto di "storia", che qui vale soltanto come "racconto", "favola". E bisognerà riconoscere che, per quanto discutibile, la proposta di una critica narrativa, che descriva la letteratura con gli strumenti della letteratura stessa, provando a mettere da parte l'ipertrofica utensileria metodologica proliferata nell'ultimo quarto di secolo, è in sé tutt'altro che da buttar via. Fermo restando tuttavia il rischio, di cui Siciliano pare ignaro, e che è stato ben rilevato da Sanguineti, di estetismo tardodannunziano, di sovrapposizione fra testi letterari e ambizioni creative dell'interprete: col bel risultato di fare insieme mediocre letteratura e critica acritica, cioè zero. Che è proprio quanto capita a Siciliano. Prima ancora però delle incertezze di prospettiva, lascia di sasso l'olimpica negligenza con cui Siciliano pretende di fare divulgàzione astenendosi rigorosamente dal controllare i propri dati e persino le citazioni dei testi. Naturalmente, poiché noblesse oblige, Siciliano non avrà corretto le bozze, e un po' di colpe potranno essere scaricate sui redattori di Segrate, ma qui c'è ben altro che qualche inconveniente tecnicotipografico. Colpisce per esempio che le citazioni alle pp. 62, 145, 266, 272 siano sbagliate in modo tale da far sballare di uno o due sillabe la misura del verso; a p. 185 gli ultimi quattro versi della citazione dai Trionfi del Petrarca contengono ben tre errori. Siciliano tra l'altro ha ritenuto troppo faticoso riscontrare le citazioni sulle edizioni migliori: nei passi della Divina Commedia, per esempio, gli è parso troppo avveniristico, non dico il testo critico di Petrocchi, ma persino quello di Sapegno; così per Jacopone, l'edizione critica del Mancini (andiamo, non è di ieri l'altro, è del 1974!) è ignorata; e si potrebbe continuare così con buona parte dei testi citati. Ma ancora, per tornare a Jacopone, il papa che lo liberò dalla scomunica (p. 77) non poteva certo essere Benedetto IX, ch'era morto da due secoli e mezzo, ma sarà Benedetto Xl. Oppure (p. 231) secondo Siciliano il Trecentonove/le di-Sacchetti sarebbe "incompiuto" perché "pensato da una mente più dotata di immaginazione che di capacità realizzatrici": in realtà Sacchetti completò sicuramente l'opera, soltanto ch'essa ci è giunta in una lacunosa trascrizione secentesca. Procedo a casaccio phché, in effetti, c'è solo l'imbarazzo della scelta fra gli strafalcioni di Siciliano. Per esempio a p. 51 si sostiene che i poeti della scuola siciliana abbiano inventato il genere poetico della tenzone, che invece esisteva già da parecchi decenni; a p. 140 (in una frase poco chiara: e ce ne sono molte, ciò che fa singolarmente a pugni con gli ostentati propositi divulgativi) spero che la definizione "popolare cantilena" (?) applicata al metro della Divina Commedia non significhi che si trattava di un metro popolaresco: la terza rima BibliotecaGino Bianco fu infatti, con ogni probabilità, inventata da Dante stesso. A p. 25, e in più altri luoghi, si sostiene la tesi strabiliante per cui la società medievale sarebbe stata caratterizzata da una straordinaria mobilità, dove, addirittura "Più mobili di tutti sono i contadini e "Cavalieri e braccianti si incontrano sui sentieri di ogni regione": che cos'è, fantastoria? comico utopistico? oppure horror critico? Un'altra perla, a p. 163: "Era una prigionia quella dei papi in Avignone, - ma di quelle dove si gustava vino buonissimo, e proprio a causa del vino buono i cardinali, talvolta, potevano convincere il pontefice a non tornare in sede, a Roma. È vero che il vino dei Castelli è stato sempre un po' troppo acidulo e indigesto". No comment. Tali e tante sono le sciocchezze che si diventa persino indulgenti verso l'uso sistema- . tico dell'anacronismo (p. 84: Jacopone che fa "puro montaggio cinematografico"; p. 102: Cavalcanti che "ci suggestiona quasi come un Maurice Blanchot"; p.112: Dino Compagni "penna d'oro del giornalismo"; p. 205: la Griselda del Decameron come "Eroina dai connotati quasi dostoevskiani"; eccetera), che pare quasi peccato veniale. Paradossalmente questo centone sconclusionato ha la bella pretesa, nonché di liberarci dai "trucchi dogmatici, siano sociologici siano economistici siano antropologici", di cogliere nientepopodimenoché "la favola del Vero-" (sì, con la maiuscola!), "il Vero,. il fantasticato Vero, di questo, paese, di questa nostra lingua". Ma niente paura, contro questa preoccupante intenzione per fortuna Siciliano stesso fornisce il correttivo e l'antidoto: "Forse - ipotizza - la letteratura italiana è un vuoto". È una proposizione, non c'è dubbio, di perentoria, definitiva esattezza: a patto, naturalmente, d'intenderla applicata soltanto a questa Letteratura italiana, a quella cioè di Siciliano, che davvero "è un vuoto", ma con un bel cofanetto. EDITORIA I DILEMMIDEI PICCOLIEDITORI GoffredoFofi Non conosco la ci fra complessiva e non so neanche in che misura - ma certamente grande - ancora i libri e i giornali si fanno con la cellulosa degli alberi. E la prima domanda che viene da farsi pensando al disastro ecologico avanzante, alla politica di rapina e distruzione della natura che nel grande e nel piccolo tutti sembrano, sembriamo perseguire ammantandola di giustificazioni più o meno ipocrite, è la seguente: quanto costa alla terra e al futuro della nostra stessa specie un nostro libro, una nostra pubblicazione? Quanti alberi sono stati abbattuti per certi best-seller, o per quell'infinita quantità di libri, magari poco venduti o invenduti che ogni anno l'editoria italiana sforna - per esempio per più di 170 quotidiani che si stampano sul territorio nazionale; per un libro del tal giornalista famoso, per le poesie stampate a proprie spese 4!i

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