Linea d'ombra - anno V - n. 18 - maggio 1987

DISCUSSIONE ' tempi. E proprio il '77, questa ferita così rapidamente incancrenita e dimenticata, lasciata lì, con molte vittime sul terreno e molti colpevoli che sono arrivati lontano; proprio il '77 mi sembra un argomento coraggioso, del tutto estraneo alla logica letteraria dominante. All'apparenza, questo romanzo si sottrae alla malattia letteraria dei nostri ultimi anni: il rifiuto ferreo per tutto ciò che può inquietare, sconcertare, perturbare il lettore. Ma la mia critica di fondo al libro è che attraverso la narrazione di un '77 iperrealista ma non reale, finisce per offrirne un'immagine di comodo, e comoda: perché sembra avere la capacità di lasciare ciascuno della propria idea, convinto delle proprie ragioni. Appena più irato, forse o più commosso, più indulgente o più preoccupato. Ma, in sostanza, uguale: senza rimettere in causa giudizi e posizioni che allora furono prese - o che allora rudemente si manifestarono - e i cui effetti ancora perdurano. È impressionante leggere recensioni provenienti da sponde opposte: ognuno è convinto che il libro dia ragione alle proprie tesi. Secondo Rossana Rossanda (" Il Manifesto", 12.2.1987) il romanzo sottrae quel movimento e quegli anni al loro destino di invisibilità, mostra come fu diverso (migliore) dalla caricatura che ne diedero i media e avrebbe dovuto suscitare ben altre attenzioni e reazioni che non necessariamente dovevano sfociare nel dramma degli anni di piombo. Vittorio Spinazzola ("L'Unità", 22.2.1987) è convinto che 'la ripulsa' netta espressa dalle forze democratiche risulta avvalorata dalla lettura del libro: non si poteva non contrastare con perentorietà un movimento così cieco e confuso, così privo di bussola". E resta persino spazio per il critico rigorosamente super partes grazie a un punto di vista "scientifico", di fotografica obiettività: "Il pregio del libro, non so quanto volontario, è che non si è obbligati a leggerlo in senso unico. Non che io stia dalla parte dei carcerieri e dei repressori, sia ben chiaro: ma vedo da una parte e dall'altra due irrazionalità, due odì che si fronteggiano e inevitabilmente si scontrano" (Alfredo Giuliani, "La Repubblica", 12.2.1987). Non è un esito desolante, per un romanzo che racconta i nostri anni più laceranti? Sembra proprio che le vicende scelte e il modo di raccontarle non siano in grado di mettere in crisi nessuno. E invece di questo avremmo ancora bisogno: di quel processo che si era aperto dentro il '77 e che rimetteva in discussione percorsi e approdi, sicurezze e convinzioni. Un percorso che già all'interno del movimento rapidamente si avvitò in una spirale allucinante di violenze e repressioni reciproche ma che soprattutto il movimento non riuscì a comunicare all'intera società. E che anzi, trasportato all'esterno, si tramutò in qualcosa di diverso: come la ricchezza della differenza in esaltazione della disuguaglianza, l'arte di arrangiarsi in microimprenditorialità diffusa, l'ironia in satira cinica e arrogante, e così via. Di quella aurorale possibilità che si annunciò nel '77 - in certi momenti di quell'anno e in certi settori di quel movimento - dovremmo riparlare. Sarebbe utile per tutti e l'importanza di un romanzo che rappresentasse anche un contributo in questa direzione sarebbe stata formidabile. Ma qui nasce la delusione provocata dalla lettura de Gli invisibili: ci sarebbe voluta più umiltà, più curiosità reale, più capacità di ascoltare, più intelligenza, più coraggio. BibliotecaGino Bianco ESSEREE NONESSERE AMERICANI Alfonso Berardinelli Non sono un americanista, né uno studioso di politica estera. Non ho neppure mai fatto un viaggio negli Stati Uniti: e questo, anche in Italia, da qualche anno comincia ad essere un caso insolito. La sola ragione per la quale oso intervenire brevemente su questa Lettera agli amici americani pubblicata da Ernesto Galli della Loggia (Mondadori 1986) è che io stesso, per qualche complicato movente, ho scritto tre anni fa un breve saggio con questo identico titolo (in "Tempo illustrato", poi raccolto in L'esteta e il politico, Einaudi 1986). La curiosità mi ha spinto a leggere il libro di Galli della Loggia. E quello che mi spinge a dire qualcosa è che questo libro mette indirettamente sotto accusa anche il tono, gli argomenti, le ambiguità della mia lettera agli stessi (ignari e imperturbabili) "amici americani". Devo spesso avere abusato, agli occhi di Galli della Loggia, di quella che volentieri lui chiamerebbe una "facile ironia". Anche se a mia discolpa devo dire che la mia ironia, oltre che, forse, facile, era anche amara, sconsolata, rivolta soprattutto contro i miei connazionali, e del tutto priva di un "orgoglio europeo" che mi sembrerebbe infondato. Insomma, non parlando con competenza di storico e di politico, dovevo per forza spogliarmi di quel punto di vista da "intellettuale democratico europeo" che tanto irrita Galli della Loggia, e assumere (del resto senza sforzo) il punto di vista della cosiddetta gente comune. Perché, anche se Galli della Loggia non lo crede possibile, può succedere anche in Europa e in Italia che un intellettuale si senta "gente comune" e "popolo", senza alcuna aspirazione più o meno frustrata a diventare né manager né leader delle masse. Il fatto è che chiunque, non solo in Italia e in Europa, ma nel mondo intero, sa dell'America, chissà come, molte cose, senza bisogno di lunghi studi e di viaggi costosi. lo partivo e non posso che continuare a partire da questo dato: come può accadere che io abbia degli Stati Uniti un'immagine così varia, ricca e abbastanza precisa - cosa che non mi succede per nessun altro paese straniero, neppure per la Francia, la Germania, l'Inghilterra, la Spagna o la Svizzera, che pure sono così vicine e dove sono stato? La risposta è altrettanto banale della domanda, ed è questa: gli Stati Uniti sono così onnipresenti e conoscibili perché non sono soltanto la prima potenza industriale dell'Occidente e del mondo, ma sono anche i massimi produttori occidentali e mondiali di ideologia e di valori simbolici, di modelli di comportamento e di immagini. Curano incessantemente i loro simboli sociali perché la loro cultura è la più sociale e socializzata che si conosca. La cultura americana è senza residui, timidezze, idiosincrasie, dubbi morali o metafisici, una cultura adatta alla "pubblicità", alla riproduzione industriale di massa. Gli Stati Uniti producono l'idea di un modo di vivere e di essere. Producono, distribuiscono e vendono in tutto il mondo la loro identità. Niente che non abbia successo, che non possa essere venduto e comprato, per loro esiste davvero. Ma perché Galli della Loggia si indigna tanto se qualcuno si sente un po' a disagio di fronte al trionfo di questa idea e di questa prassi? Perché vede in questo disagio soltanto dell'anti-americanismo reazionario, cattolico o criptostalinista? All'idea di cultura come successo di massa è già arriso il successo: non c'è nessun bisogno di battersi perché questo avvenga. Gli intellettuali europei sono molto più "americanizzati" di quello che lui crede. Non vedono altro che questo: modernizzarsi e americanizzarsi. La loro vergo-

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