Linea d'ombra - anno V - n. 18 - maggio 1987

anni Sessanta ai primi anni Ottanta. Per questo chi si aspetta da Gli invisibili un romanzo sul '77 ha l'impressione di leggere un libro che gira come un vortice attorno a un centro che non c'è, non viene raccontato, forse non è avvenuto. Il '77 di Sergio B. è troppo gracile per reggere il peso della narrazione, non ha - nella sua storia e nel romanzo - alcuna centralità. Altrove il '77 ebbe almeno questa capacità: di sintetizzare in giornate ed episodi precisi le trasformazioni politiche e sociali. Il primo sabato di febbraio con l'Università di Roma stretta da un cordone ininterrotto di Polizia e l'atroce muro di militanti del Pci che a Bologna tenne lontani i compagni di Francesco Lorusso dalla cerimonia ufficiale erano la materializzazione visiva e "spettacolare" della solidarietà nazionale e del compromesso storico, delle "due società" e dell'isolamento del movimento. (E le giornate del movimento di Bologna, così piene di episodi del genere, sono state già "narrate" in Bologna '77 ... fa/ti nostri ... edito all'epoca da Bertani). Il filo conduttore, l'anima del racconto di Nanni Balestrini rimane invece l'esperienza della prigione - che tra l'altro apre e chiude Gli invisibili. Il secondo tempo è quello di enfatizzare l'infantilismo e l'immaturità del movimento. Che era invece così variegato e stratificato da offrire comoda ospitalità a componenti politiche e generazionali assai diverse. Come i già i maturi ex dirigenti dei gruppi, moderati e abili gestori di assemblee, che a Roma - nel movimento che tutti videro e credettero in mano all'autonomia - vinsero praticamente tutte le riunioni in cui sopravviveva un minimo di rispetto per le opinioni della maggioranza. Il cuore di quel movimento erano però i tormentati ma non immaturi ragazzi di mezza età variamente provenienti dalle fila dell'utopia rivoluzionaria degli anni Settanta e alle prese durante il '77, con giganteschi problemi di ridefinizione di sé e del proprio futuro. Problemi troppo grandi e imprese troppo _complicate: ma tutt'altro che infantili (adolescenziali, semmai: un amico della mia età dice sempre che siamo diventati adulti col '77). Una generazione che rimetteva in discussione scelte e mitologie, con timore e crudeltà; e commise errori grandissimi. Ma che era infinitamente lontana dall'ingenuità del "buon selvaggio" protagonista de Gli invisibili. li quale appare così palesemente irresponsabile da intenerire, perfino. Qui, ben lontano dalla esemplarità che gli è stata attribuita il romanzo rivela la sua parzialità. on sarebbe un limite s; non contribuisse a fornire un'immagine "allettante" del '77, attenuandone il carattere più scabroso ma anche più ricco. La terza tappa di questo processo è evidente in questa sorta di testamento morale contenuto nel libro: "Il fatto è che io penso e anche tanti come me lo pensano che in fondo non abbiamo mai avuto nessuna idea né voglia di vincere ma nemmeno nessuna idea che c'era qualcosa da vincere da qualche parte e poi sai se ci penso bene adesso a me la parola vincere mi sembra proprio uguale come a morire". Questo tragico decoubertainismo (l'importante è partecipare ... ) non rende assolutamente giustizia del modo in cui nel '77 si è vissuto il problema del rapporto tra movimento e fini: sicuramente sbilanciato ul primo polo ("il movimento è tutto" scrisse su un muro di Roma un anonimo che non voleva certo fare l'apologia di Bernstein) ma che non era privo di scopi, di finalità. Tra cui quella di esserci, di mostrarsi; ma anche quella di ottenere spazi. In tutti i sensi: dallo spazio, generico e astratto, ma necessario, della affermazione di sé in una società che mostrava una fortissima tensione alla chiusura, all'esclusione, fino agli spazi minimi e precisi di certe attività politico-creative (il '77 cominciò con l'autoriduzione nei cinema e finì con l'occupazione di case e centri sociali). "Il soggettivismo" del '77 era diverso dal facile vitalismo espresso dai protagonisti del romanzo in una loro riflessione BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE finale: "mi chiedo adesso che tutto è finito mi chiedo che cosa ha voluto dire tutta questa nostra storia tutto quello che abbiamo fatto che cosa abbiamo ottenuto con tutto quello che abbiamo fatto lui ha detto non credo che è importante che tutto è finito ma credo che la cosa importante è che abbiamo fatto quello che abbiamo fatto e che pensiamo che è stato giusto farlo questa è l'unica cosa importante io credo". La fuga dalla vittoria del protagonista, moderna versione dell'apologo della volpe e l'uva, sortisce un effetto tranquillizzante: ancora una volta rischia di alimentare un'opinione mistificatoria, una lettura sciagurata: volevano esprimersi, solo questo volevano, l'hanno fatto, hanno pagato, ora è finita. Infine, un'aura ultraromantica, un po' prometeica e molto elegiaca si stende su tutta la vicenda e ne circonda i personaggi. Abbondano momenti patetici e sentimenti struggenti, né mancano veri e propri incidenti retorici ("nelle città strade intere s'incendiavano al passaggio di cortei di decine di migliaia di persone ... "). È stato scritto (da Rossana Rossanda) che Balestrini racconta "senza urla né languori". A me sembra invece un romanzo urlato e languido, che si esalta alle prese con i sentimenti più virulenti e le situazioni estreme e che ha squarci di languore persino irritanti; per esempio nei nomi dei protagonisti (Nocciolo, Cotogno, Malva, Gelso - i loro nemici si chiamano dottor Donnola e giudice Lince). La stessa trovata che nei romanzi di Stefano Benni è funzionale alla costruzione di un registro ulteriore, ironico e favolistico, qui appare un'allusione impreci a, un vezzo gratuito. Di ironia, invece, qui non ce n'è proprio, ed è il dato che segnala maggiormente la distanza di que to romanzo dal '77 reale. Dove in quell'anno movimento di massa ci fu l'ironia si affermò come la sua forma di espressione prefe~ita: non solo come arma contro i nemici, ma anche come segnale delle trasformazioni interne a una generazione. L'ironia era il modo, forse facile e ingenuo ma efficace, con cui ciascuno segnalava che stava cambiando, che intendeva rimettere in discussione certezze e fedi, che voleva sdrammatizzare queste trasformazioni e riuscire a comunicarle. È molto stranoche un romanzo così attento al linguaggio non colga questo aspetto, questa "lingua" del '77. Questo è un libro che fa riflettere e discutere: a me sembra una caratteristica più preziosa quanto piu rara, di questi Foto di Tano D'A111ico.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==