Linea d'ombra - anno V - n. 18 - maggio 1987

DISCUSSIONE menti passati è anche quella di trasmettere alle generazioni successive il senso delle esperienze buone e degli errori da non _rifare - questo è certamente mancato. Più di "interpretazione storica" i testi di Ortoleva e Ciafaloni e più di "ricostruzione storica" quelli di Bobbio e Solmi (il primo sul movimento nelle università, il secondo sul suo passaggio alle superiori), mi sembrano bensì concordare su molte cose, e le differenze, quando ci sono, non mi paiono essenziali. La stessa impressione la si è avuta alla affollata presentazione pubblica del libro, a Torino. Si ricomincia finalmente, dopo il disastro della seconda metà dei Settanta, a parlare, a voler parlare. In pubblico. E intanto affermando concordemente una cosa finora non ovvia come potrebbe sem- - ·brare: la distinzione netta tra la storia del '68 e quella dei gruppi. C'è dietro probabilmente anche di più. Dice Solmi: "la parabola percorsa da diversi esponenti o militanti del '68 non è stata sempre edificante." L'inizio della parabola resta ben valido nella valutazione degli autori, che ne mettono in luce le qualità di fondo: la dimensione planetaria del fenomeno, l'idea di valore del movimento in sè, la contrapposizione allo establishment o sistema, il primitivo rifiuto del modello partito e dell'uscita all'esterno altro che come esempio, il rifiuto della "unidimensionalità" dell'individuo, la rivendicazione della gioventù per la prima volta con carattere sociale e di massa e come portatrice di nuovi valori, la democrazia assembleare contro quella rappresentativa e in essa la valorizzazione del ruolo della persona, anche della meno dotata, l'alleanza tra i "primi della classe" e gli "ultimi", la battaglia per la democratizzazione della scuola, la liberalizzazione dell'accesso all'università, la riforma degli esami, i "controcorsi", lo svecchiamento della cultura e soprattutto, poiché di una "rivoluzione culturale" davvero si trattava, l'uso della cultura non in funzione del riprodursi di un potere ma per la liberazione di tutti. Insomma, il '68, confluenza di processi sociali e culturali diversi, fu un movimento in cui l'utopia, proprio per il suo radicamento nell'ambito della formazione e trasmissione della cultura, fu qualcosa di concreto e immediato, capace di dare già a breve scadenza frutti precisi, e di trascinare col suo esempio in definitiva quello della democrazia assembleare, altri strati sociali a cominciare dagli operai dell'autunno caldo. La storia del '68 non risulta dunque difficile da fare, una volta liberata dalle incrostazioni delle ideologie successive. È quella degli anni Settanta a essere più scabrosa, ma anche in essa si dovrebbe distinguere tra i primi anni del decennio, aperti a speranze spesso eccessive ma pur ricchissimi di esperienze belle e positive per la capacità del "modello '68", della spinta del '68 di coinvolgere strati i più diversi della società. Questa spinta per un certo tempo non poterono imbrigliarla i gruppi né soffocarla il potere, e vi fu una dialettica movimento/gruppi mentre bloccata o riduttiva fu quella gruppi/istituzioni. Cosa rimane di tutto questo? Alcune conquiste, importanti, di cui magari si ignora che sono dovute al '68. E il passaggio faticoso a un'era diversa, e non certo migliore con la dura traversata degli anni Settanta, che sono stati per gran parte gli "anni dei gruppi" e poi delle loro conseguenze più settarie o dei movimenti che alla chiusura e mistica dei gruppi si sono male o bene contrapposti, come il '77 e il femminismo. La attuale è un'era di cultura più diffusa, ma estremamente più BibliotecaGino Bianco controllata di quanto non fosse pensabile nel '68, con un sistema dell'informazione monolitico e capillare, e di un establishment, di un "sistem;i" mai così forte perché costruito sulla complicità corporativa di ceti che non sono più classi, di persone che hanno lasciato il "protagonismo di massa" per una sorta di infelice e ringhioso "narcisismo di massa." (Se, in altra parte di questa. rivista, si ripubblica la prefazione di Marcuse a L'uomo a una dimensione è perché siamo convinti, con Ciafaloni, che "oggi la società è molto più unidimensionale di quando la traduzione di L'uomo a una dimensione fu fatta". Nel '68, in Italia almeno, avevamo ancora un'identità, non eravamo ancora una brutta copia degli USA, c'era ancora un'opposizione, e i media non avevano il potere che oggi hanno, su tutti.) E intanto il potere afferma come non mai il suo "diritto" di distruggere il futuro, aggredendo la natura e coltivando ciò che si ostina a definire come "progresso scientifico-tecnico". Foto di Uliano Lucas.

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