ILMONDODIMICHAELK Alessandro Triulzi "La prima cosa che la levatrice notò in Michael K, quando lo.estrasse dall'utero della madre e lo introdusse in questo mondo, fu il suo labbro leporino". Così inizia La vita e il tempo di Michael K (Rizzoli, p. 249, L. 20.000) di J. M. Coétzee, autore sudafricano, bianco, di origine boera e dunque afrjkaaner, già noto in Italia per uno straordinario romanzo-metafora sulla cittadella sudafricana bianca assediata da inesistenti orde nemiche (Aspettando i barbari, Rizzoli, 1983). Testimone dall'interno, e dunque partecipe, della spettrale situazione sociale in atto in Sudafrica, Coetzee si interroga soprattutto sulla condizione umana che ne deriva: la tentazione di circoscrivere i suoi romanzi nel puro ambito dei rapporti tra bianchi e negri va pertanto respinta perché fortemente limitativa. Né il Magistrato Civile dell'avamposto di frontiera assediato in Aspettando i barbari, né Michael K e neppure la Magda di ln the heart of the country (un romanzo breve del 1977, non tradotto in italiano, ma che ha ispirato il soggetto del film Dust della regista belga Marion Hansel, premiato a Venezia due anni fa) sono caratterizzati razzialmente: i personaggi di Coetzee sono quasi sempre personaggi anonimi, senza altra identificazione se non quella che rappresentano o esprimono a livello simbolico con i loro gesti e le loro parole. La dicotomia bianco-negro, espressa in modo continuo e visivo in tanta letteratura contemporanea di provenienza sudafricana (si pensi a Nadine Gordimer) è qui totalmente assente: solo qua e là qualche indizio, un "ciuffetto di peli biondi" sulle dita di un contadino di passaggio, una scheda di polizia su Michael K, "meticcio maschio - senza fissa dimora", unica caratterizzazione valida per un mondo fatto a scomparti. Per il resto, la "diversità" dei personaggi di Coetzee è piuttosto espressa a livello simbolico puramente esteriore - il labbro leporino di Michael K - o di situazioni: gli ambigui rapporti di dominazione-soggezione tra il Magistrato e la donna barbara prigioniera, tra Magda e il servo, tra Michael K e i suoi carcerieri. Giacché la tela di fondo, l'ordito umano su cui tali rapporti si innescano o si perdono, il mondo di violenza che esprimono, sono ritagliati sui contorni informi, ma certi, di una umanità primordiale alle prese con se stessa e con il sistema di potere di cui si è circondata, o cui ha delegato una sua parte. Michael K, "giardiniere di prima classe" di Cape Town, ne fa le spese affrontando, in un Sudafrica teatro di scontro tra polizia e dimostranti affamati, senza lavoro o dimora, un viaggio con la madre malata prima, e, dopo la sua morte, con le sue ceneri racchiuse in una scatola di cartone, alla ricerca di un introvabile pezzo di terra non delimitato da muri, filo spinato o padroni dove celare il suo mutuo e sommesso operare di piantatori di semi. Il problema di Michael, come già prima di lui quello del Magistrato di Aspettando i barbari, non è tanto un'impossibile uscita dal sistema quanto il verificare giorno per giorno "quale scandaloso e oltraggioso significato possa assumere la permanenza in un sistema, senza diventarne parte" (p. 229). Così Michael, più volte fermato dalla polizia e ogni volta sospinto verso un campo ("Questa non è una prigione ... È un campo .... Un campo è per i disoccupati. È per tutti quelli che girano da una fattoria all'altra chiedendo un lavoro, perché non hanno da mangiare, perché non hanno un tetto sulla testa", p. 110) si corazza di una elementarietà di gesti, movimenti, silenzi che intendono assicurargli l'adesione a un sé primordiale non coinvolto dal mondo di complicità che lo circonda. La sua passività, il suo proteggersi da "miglia e miglia di silenzio", la sua ostinata stolidità e limitata coscienza di ciò che avviene intorno a lui ("Sono stato muto e scemo quando ho cominciato e mi manterrò muto e scemo sino alla fine", p. 247) sono i filtri che Michael accumula e frappone tra la sua malattia e quella degli altri: "Non è che tu sia veramente malato" osservò il vicino. "Nessuno di noi è malato." li suo gesto coinvolgeva tutti: prigionieri, guardie, sorveglianti" (p. 64). Così Michael, internato e fuggiasco di campo in campo, alla disperata ricerca di un angolo dimenticato, zona o "terra che non apparteneva ancora a nessuno", si rintana sempre più in se stesso sopprimendo di volta in volta i bisogni più elementari, la fame, il sonno, la luce, facendosi ogni giorno "più piccolo, più duro, più secco", piantando semi di zucca di notte e dormendo di giorno in un buco BibliotecaGino Bianco scavato nella terra, abbandonandosi al Ouire lento del tempo, senza desideri e senza sogni, in attesa, immobile, "come una lucertola sotto la pietra." Il suo rifiuto del mondo esterno, la sua non - appartenenza e non - collaborazione sono reazioni assolute quanto istintive ("quando cercava di capirsi e di indagare i suoi motivi, si apriva uno iato, un buco, una tenebra ... La sua era sempre una storia con un vuoto nel mezzo, una storia sbagliata" p. 153). Il suo fine è sopravvivere, piantare semi, dargli vita anche solo con "un goccio d'acqua nel cavo del cucchiaino" (p. 250). In un mondo che concede solo spazi e scelte obbligate, Michael non vuole essere né carcerato né carceriere, né unirsi ai "guerriglieri della montagna" ("ci devono essere uomini che restano indietro e continuano a coltivare gli ortaggi") né cibarsi del cibo gratuito e della falsa sicurezza dei campi, ma starne semplicemente fuori: "fuori allo stesso tempo da tutti i campi. Forse questo è già un risultato soddisfacente, dati i tempi che corrono. Quanta gente è rimasta che non è chiusa in un campo e che non monta la guardia ai cancelli? lo sono riuscito a evadere dai campi; forse, se vivo tranquillo, riuscirò anche a evitare che mi facciano la carità" (p. 248). I monologhi folli dei personaggi di Coetzee, antieroi dilaniati e contraddittori, profondamente umani nella loro angosciante richiesta di essere, nel loro disperato tentativo di 'permanere-senza diventare parte' di un sistema che rifiutano, sono messaggi troppo inquietanti per essere semplicemente circoscritti, come è stato fatto in genere dalla critica in Italia, alla sola situazione sudafricana. La casa editrice Rizzoli, con copertine impropriamente allusive e traduttori eccessivamente provvidi, come nel caso di Michael K, di annotazioni a volte svianti (ad es. a p. 9 e 171), ma soprattutto con lo scarso sforzo pubblicitario ed editoriale riservato ai romanzi di J. M. Coetzee, non ha certo contribuito alla loro maggiore diffusione né a quel dibattito critico che era lecito attendersi e che ha seguito altrove la pubblicazione delle sue opere. Foto di Margaret Bourke-Wi1he/Life, 1950 21
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