Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

92 TEATRO/DEMATTEIS ed eccezionale: alla medietà sociologia e morale delle fisionomie romanzesche, alla medietà realistica dello stile, fanno riscontro sul versante opposto il carattere straordinario delle situazioni rappresentate e la tipica anomalia di strutture narrative complesse e stratificate. Il linguaggio fantascientifico offre a Dick i materiali e gli strumenti necessari per svolgere un discorso sul presente in grado di lacerarne l'apparenza di normalità conciliata e mostrarne le contraddizioni effettive. Il suo tentativo è stato quello di darci una narrativa che sapesse fondarsi su un'esperienza integralmente vissuta della modernità, ed essere all'altezza della gravità dei nostri tempi che sono - e uno scrittore di fantascienza può capirlo meglio di altri - i tempi della bomba atomica. Per quanto a tale tentativo non sempre abbia corrisposto una piena riuscita sul piano dei risultati (la complessità della materia non è sempre equilibratamente padroneggiata, così come lo stile più di una volta desta qualche perplessità), all'opera di Dick nel suo insieme - tanto per la forte tensione morale che la anima, pessimistica e non consolatoria, quanto per la sua indiscutibile originalità letteraria - andrebbe riconosciuto un posto di notevole rilevanza nel panorama della produzione contemporanea. Tuttavia, la grandezza di Dick è raggiunta "attraverso" il genere: è impensabile separata da esso. li significato del suo lavoro sta innanzi tutto nella capacità di trasvalutare i topoi caratteristici dell'immaginario fantascientifico, restando all'interno dei confini stessi del genere. Da qui la sua abilità nello stabilire un rapporto d'intensità inconsueta con il lettore, senza perciò né giocare unicamente sulle corde di un coinvolgimento emotivo e nemmeno essere costretto in nessun modo a restringere l'area del pubblico potenziale. Purtroppo, la ragione stessa dell'importanza della sua opera - il suo legame indissolubile con la fantascienza - si capovolge spesso nell'ostacolo principale che impedisce ai suoi libri di essere letti e di divenire occasione di riflessione anche al di fuori dell'ambito strettamente fantascientifico. E questo accade in particolar modo in Italia, dove a quattro anni dalla morte di Dick si attende ancora (eccezion fatta per il serio lavoro che ormai da tempo va compiendo Carlo Pagetti) che la critica si accorga dell'esistenza dell'opera dello scrittore americano e si decida a esaminarla con attenzione. A dimostrazione di come alcuni radicati pregiudizi - come quello verso ogni testo che si presenti come "paraletterario" - siano, diversamente da quanto si sente dire, tutt'altro che superati. Divina invasione non è una delle opere più BibliotecaGino Bianco riuscite della produzione dickiana (è danneggiata, per esempio, da una sensazione di didascalismo che si avverte in alcuni dialoghi d'intonazione filosofica non ben risolti), e tuttavia è un romanzo che presenta più di un motivo d'interesse. Inutile tentare di richiamarne la trama che, come di frequente avviene in Dick, è praticamente impossibile riassumere. Sarà sufficiente sottolineare la notevole invenzione centrale: quella del ritorno sulla terra di un Dio al quale delle lesioni cerebrali hanno causato una perdita di memoria. Un Dio che a tutti gli attributi del Dio delle religioni monoteistiche unisce paradossalmente alcuni tratti tipicamente umani: l'esperienza del dolore delle creature e del mondo lo colpisce in profondità e lo lascia perplesso, così come a dispetto di quella che dovrebbe essere la sua onnipotenza, la padronanza delle situazioni sembra sfuggirgli. Basti quest'accenno a far comprendere come tanto per Divina invasione, quanto per Valis e The transmigration of Timothy Archer (ancora inediti in Italia ma sostanzialmente affini per concezione al romanzo in questione), se è corretto parlare dell'approfondirsi dell'interesse di Dick per una tematica religiosa (peraltro presente già da molto nel suo lavoro), tale "religiosità" è assai particolare ed eterodossa. Meglio, credo, sarebbe dire che l'ultimo Dick usa un vocabolario prettamente religioso (colpa, giudizio, caduta) per ridisporre i motivi classici della sua visione del mondo in un nuovo orizzonte. Un orizzonte non tanto fondato sulla fiducia in un disegno provvidenziale, quanto aperto a una prospettiva di mutua solidarietà tra esseri umani (a un'etica della "resistenza" e della "protezione reciproca"). In sostanza, un'aspirazione a una religiosità non raggiunta, che si traduce in una narrazione paradossale sempre in bilico fra tragico e grottesco, tra ironia e pathos. TEATRO SPÈRA,SFERA,SPERANZA Stefano De Matteis L'arte della gag è un'arte particolare. Richiede capacità di sintesi, consapevolezza dei propri mezzi e, soprattutto, sapere a chi la gag è diretta in modo da misurare bene la gittata e la direzione. Oggi quest'arte è svalutata, dominio di fornitori di barzellette per i peggiori spettacoli delle maggiori network private: la gag ha perso di poesia, di profondità, di spessore. Ma la gag non è solo la semplice battuta, è qualcosa di più. Dietro di essa si nasconde una storia, in essa traspare la vita, da essa prende spunto la fantasia di chi sta a guardare. È una forma di comunicazione immediata, diretta, una chiave per l'immaginazione, ma è anche una tecnica, che basa la sua forza sullo stupore e lo spiazzamento di chi guarda. Nella struttura narrativa è un passaggio, un nodo che allaccia discorsi ed eventi, fa progredire la storia e apre nuove e inaspettate associazioni. Il repertorio delle gag è vario, va dalla parola al gesto, e forse nessuno oggi è grande artefice di gag quanto Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, che partendo dalla materia e dall'oggetto traducono pensieri in una lingua teatrale ricca e puntuale. La porta d'ingresso di questi pensieri è proprio la gag e mai altro loro spettacolo è stato così completo come Spèra dove i temi dei precedenti s'intrecciano tutti e si precisano in un discorso totalizzante, non più settoriale e tematico. La riflessione sulla condizione umana si mescola al riferimento al contesto e alla riduzione di esso in segni essenziali, tanto esistenziali che materiali, che crearono giochi che si moltiplicano sia sulla scena sia nei significati che possono suscitare. Spèra è il punto d'arrivo di una carriera più che decennale di due artefici che non perdono la loro innocenza e la loro semplicità nell'imbastire una narrazione asciutta e lineare. Vi si incontrano l'ironia, la tenerezza, la tragedia sempre sfiorata, la "solita" materialità dell'oggetto che ci porta lontano, fin nella sfera celeste: proprio a quel primo e più antico significato di "spèra", il cielo di Dante e del sistema tolemaico cui essi guardano e con cui giocano. Spèra incarna in azioni minime, in giochi elementari, quelli più concreti e materiali di "spèra" cui ci si riferisce come a uno specchio in cui guardarsi, di cui scrutare la trasparenza, il peso che ostacola il movimento. Primo segnale: il sipario che chiude la scena comincia a gonfiarsi e a crescere verso il pubblico, come un pancione gravido, per sgonfiarsi all'improvviso e, aperto, mostrare una scena nera, nuda, con una scala al centro che arriva al soffitto, su cui è applicata una sfera. Da quella spuntano una testa, braccia, spalle, un busto che sale verso l'alto, e piedi, gambe, un bacino che va verso il basso. La sfera si spezza in due come l'uomo che è al suo interno: ciascuno dei due pezzi è fatto da mezza sfera e mezzo uomo. Da qui la rincorsa, la ricerca, il tentativo di ricomporsi e ricostituirsi. Le sfere, intere o dimezzate, si moltiplicano, come gli oggetti, le corde, gli indumenti, le scarpe, i cappelli di cui si liberano e si impossessano,

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