recenti sulla sua opera, ricordo almeno l'introduzione di F. Bandini alle Poesie scelte (1957-1974), Milano, Mondadori, 1975; e i saggi di C. Ossola, Metrica e semantica in Giovanni Giudici, in "Metrica" I (1978); A. Berardinelli, La musa umile, in li criticosenza mestiere, Milano, li Saggiatore, 1983; N. Merola, La scala e il Parnaso, in Letteratura ultima scorsa, Napoli, Pironti, 1984; M. Perugi, Appunti su Giovanni Giudici, in "Linea d'ombra", nn. 5-6 (1984); e la prefazione di G. Folena ali' Eugenio Oneghin di Puskin in versi italiani, Milano, Garzanti, 1983. Infine, visto che si è parlato della lirica provenzale, vorrei segnalare due volumetti che, sebbene da punti di vista diversi, costituiscono delle eccellenti introduzioni non specialistiche ai trovatori: M. Mancini, La gaia scienza dei trovatori, Parma, Pratiche, 1984; e U. Mòlk, La lirica dei trovatori, Bologna, Il Mulino, 1986. IDIOMAE IDIOTA Giuliana Nuvoli "Ho la religione del mio re; ho la religione della mia nutrice", rispose Cartesio al ministro Revius che l'interrogava in proposito, rimandando ai due diversi domini della consuetudine e della verità. E al re e alla nutrice rimanda la bipolarità linguistica di ldioma di Andrea Zanzotto (Mondadori, pp. 124, L. 18.000) e l'uso giustapposto e differenziato di lingua nazionale e dialetto. Idioma è l'ultimo volume d'una "assai improbabile trilogia", già annunciata ne li Galateo in Bosco (1978) e in Fosfeni (1982), le altre due raccolte che la compongono. "Pseudo-triologia: momenti non cronologici di uno stesso lavoro, che rinviano l'uno all'altro a partire da qualunque di essi, anche se in una certa discontinuità, e persino sconfessione reciproca", avverte, in paradosso, il poeta: saltabeccanti nello spazio e nel tempo, come i folletti del Montello. Vi sono, così, in questo volume, liriche scritte a partire dal 1975 - non importa quali - in un percorso alterno e accidentato come i sentieri del suo altopiano. li libro è diviso in tre sezioni - italiano, solighese, italiano - ma inutile pensare ad una definizione delle parti, e meno ancora a un filo che irresistibilmente leghi, fra loro, i componimenti. I fili, le bave esistono: ma uscendo da Idioma e andando indietro sino alle prime raccolte di Zanzotto. È lui stesso a indicare la strada, citando di sé titoli e sottotitoli: Egloga Quarta, e Biglia, ibliotecaGino Bianco e li Galateo in Bosco. Oppure inserendo ad incastro liriche come scivolate via dagli altri due volumi di questa "improbabile trilogia" Verso il 25 Aprile che, coi suoi cippi, ossari, divieti bene starebbe ne li Galateo in Bosco; o In un XXX 0 anniversario che par rubata a Fosfeni: neve, gelo, azzurro-baratro-nord, voce forse logos. E sono, queste due, le liriche intorno alle quali si aggruma la prima parte; segno di fedeltà ad una poesia dichiarata, adesso, come gesto d'amore: "Per me il buon calore e il tanto latte dei sentimenti/ ebbe sempre nel fondo un elemento di nera esaltazione./ Erano ferite dentro le colline/ nei fianchi giovani e amorosamente annosi del folto;/ e io le vedevo e amavo (Verso il 25 Aprile). Rara e preferibilmente sottesa, la parola amore in Zanzotto, che è sempre rifuggito dall'eloquio frusto e ridetto e mal usato; che ha sempre teso ai significati ultimi delle parole, smontando e rimontando la lingua, come quel suo "remoto / smontare e rimontare oggettini - da / fanciullo iracondo implacabile". Ma se questo aspetto è privilegiato nelle prime raccolte, dove la volontà di conoscere e penetrare e oltrepassare il limite si fa talora ossessiva nevrosi, non così accade in questa trilogia. Qui è la sfera affettiva, non quella cognitiva, ad essere privilegiata: esito inevitabile di una tensione che, pervenuta al muro del divieto, del non si va più in là, della cristallina sfera del noumeno, torna indietro a boomerang, mutando natura. Dalla nutrice al re, e dal re alla nutrice: giunto al massimo della rarefazione linguistica, al luogo dove le parole denotano soltanto se stesse, Zanzotto è tornato al dialetto (ancora idioma), e piu indietro sino al petèl, e al gioco. Quel gioco che, preannunciato in Filò ed occhieggiante ne Il Galateo in Bosco, è protagonista dell'introduzione a Misteriòi, poemetto già pubblicato rn:I 1979. Se Fame, Fato, Fatica sono gli onnipresenti dei che presiedono i poemetti, a cui nessun essere vivente - nella sua pena quotidiana - riesce a sottrarsi, resta però al /udus uno spazio che è necessario salvare per non morire in vita. E giocosamente Zanzotto, nella sezione centrale cantilena Onde éli (Dove sono) - quell'Ubi sunt d'antichissima memoria poi reso celebre da Villon -, facendo sfilare davanti agli occhi del lettore la più cara delle zie, Pina, la vedova Bres, Urora, Toni e la Neta, Marieta Tamòda: "aneme sante e bone", un po' caricature e un po' folletti benevoli. E giocosamente, nel congedo del proemio a Misteròi, ricorda: "Ma comi, tosatèl, quant maturloni/e quant de bona v6ja, senpre, e boni .. ./E mi i vede, me par, farme 'n poch POESIA/NUVOLI89 marameo,/zhignarme, ridolar, pò farne ciao ... ". Eppure lo stento quotidiano dell'esistenza aveva distorto e deformato quelle figure di paese: così, almeno, esse sarebbero risultate in una rappresentazione convenzionalmente realistica. Ma gli occhi sono quelli di fanciullo "inocà ... / a la finestrela cèa ... "; e di loro è il sorriso e il gesto di saluto, a restare. Infine la terza sezione del volume, con Alto, altro linguaggio, fuori idioma? che ne costituisce, per più d'un verso, il componimento-chiave: a partire dall'anafora iniziale: "Lingue fioriscono affascinano/ inselvano e tradiscono in mille/ aghi di mutismi e sordità/ sprofondano e aguzzano in tanti e tantissimi idioti/ Lingue tra i cui baratri invano/ si crede di passare - fioriti, fioriti, in altissimi/ sapori e odori, ma sono idiozia". Lingue giustapposte e identificate con idioti/idiozia: dove il termine idiota, dai residui etimologici di privato chiuso (come dichiara in nota Zanzotto), rimanda irresistibilmente al significato attribuitogli da Shakespeare in Macbeth: "It is a tale/ Told by an idiot, full of sound and fury, / Signifying nothing". E l'as~oluta incomprensione e il niente sono i referenti veri di questa lingua che si sfalda in idiozie; un complesso di supposizioni materiali (così le definisce Ockham), in cui i termini stanno soltanto per se stessi e non sottendono alcun oggetto o significato. E allora si spiega: "Idioma, non altro, è ciò che mi attraversa/ in persecuzioni e aneliti h j k eh eh eh/ ( ... ) Pare, ognuno, residuo di sé, di/ io-lingua, ridotto a seduzione!" Idioma: lingua di re e lingua di nutrice: a questo punto è lo stesso, tanto "La vera lingua è in un'altra, all'ultima,/ lateralità, la lingua / è ora fuori idioma" (Nix 0/ympica). Ma se è fuori idioma - al di fuori di tutti gli idiomi - allora la vera lingua, quando vuol farsi elemento di comunicazione, è il silenzio. Questo, almeno, sembrano indicare i versi con i quali si chiude Idioma: è "come se noi e i nostri ricordi/ ma più i nostri presenti/ si unissero senza appello, ma non sotto imperio,/ ma induzioni di ragionamenti/ che non lo saranno mai più, per aver raggiunto/ pacatamente (e insegnandolo) gli elementi". Quando il concetto, la parola, il termine scritto non solo torneranno a supporre davvero le cose, ma giungeranno ad indentificarsi con esse (e raggiungeranno così il massimo del significato nel momento in cui cesseranno di esistere), allora si avrà il massimo della comunicazione. È un paradosso logicamente ineccepibile: quanto più la parola si allontana dalla cosa significata, tanto meno diventa significante; dunque il massimo della si-
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