88 POESIA/DIGIROLAMO parodico, al comico, e perfino alla filologia. Quello che si vuole dire è che quest'ultima poesiadi Guidici è lirica alta senza mirare all'assoluto e senza mimesi verso il basso. Si cominciano a capire, allora, i perché dell'addobbo medievaleggiante di queste poesie, che di medievale hanno assai poco salvo che un'idea rigorosa e, ripeto, prepetrarchesca di lirica. La poesia dei trovatori è stata poesia dell'amore puro e dell'amore carnale, comunque dell'amore come esperienza centrale dell'esistenza (fino al punto di modellare il comportamento dell'individuo nella società) e come modalità antonomastica del fare poetico. Forse Giudici ha semplicemente cercato nei trovatori una varietà e una completezza di gamme espressive a cui la lirica italiana aveva rinunciato fin quasi dalla sua fondazione. Allontanato, come si è detto, dal "voi", il personaggio femminile di Salutz occupa una posizione di superiorità ed è circondato di mistero ("Maestra di enigmi / Affermate che basta una parola/ E quella che sola nessuno ha", 1.2; "Minne non so quale voi siate", 1.3); l'amante è suo servo e le offre "il sèdulo servizio" (1.6). Al di fuori di qualsiasi vicenda o filo narrativo, sono questi i due attori in scena nelle settanta poesie del libro, e converrà subito insistere sul fatto che l'io che parla si fa qui personaggio, con tratti fortemente caratterizzati. Servo e padrona, dunque; ma non solo. li rapporto di sottomissione può essere concretizzato in similitudini che vanno ben oltre la convenzionalità dello stereotipo: "Mi trattaste da cane - / Né di ciò posso tacere / Ma non voglio avermi a male / Se amore fu in cambio di pane - / ... / Benché più sottile scienza / È quando il cane fracassato I Si consola per coscienza / Dell'aver preso più che dato-/ li che per vostra inesperienza/Di me non sarà narrato" (1.5), una poesia collocata a metà della prima sezione e che è abbastanza indicativa delle sorprese a cui può andare incontro il lettore che si aspettasse una lirica d'amore idealizzante e neostilnovistica, una strada già tentata in questo secolo e che Giudici non ripercorre. Se infatti Minne-Midons non è priva dell'imperio, della forza e della magia di alcune dame montaliane, i suoi attributi principali sembrano altri: "E artigli da farmi a brani - ma senza / In voi maestà di leone / Benché a ciò vi travesta / La sbandierata gloria delle chiome / ... I Vi chiamo svenatutto faina / Flagello dei pollai mustelide fatale: / Absit iniuria fatto salvo il vostro / Midons - bel culo imperiale" (11.8). L'esatto contrario di un oggetto di contemplazione, Minne-Midons si muove nelle liriche di Salutz intraprendente e agBibliotecaGino Bianco gressiva, anche sessualmente: "Umide labbra che di me affilate / Anima e senso ... / Midons che mi disfate e mi tessete / Nel liscio albergo delle vostre sete / E trappola crudele / Dove fui preso un giorno seguitando / La vostra scia di miele -" (11.5), e compare più volte come una creatura tutt'altro che dolce: "O voi - matta bufera/ Ai vilissimi nervi urlo e stridio" (111.5), "Voi di malizie assai più che un capello / Guerrigliera di nervi" (V.3). Ma la strega, la tigre, la matta bufera e l'ira-di-dio frequenta anche, al pari di ogni essere umano, luoghi ordinari come una stanza da bagno, anzi una doccia, come sembra di capire (correggetemi se sbaglio) leggendo V.7: "Rorida poi carezza/ Pioggia d'aghidiamanti I Lustrale e quasi castamente infanti I A nude belle membra / Seno costato e fianchi / E rider d'acque entro segreta tenda". E giocato sul piano dell'esplicito, pur nella sostenutezza e nella relativa oscurità della lingua, è anche tutto un mondo fantasmatico, rappresentato si direbbe con cruda lucidità. Minne come Madonna (''Accarezzavo la cara figura / Mia quasi vergine madre - / Vi assaporai confitto nelle ossa/ Delle mie mani in croce", I. 10; "Minne Midons Kapò Madre e Maria", V .4); ma Minne soprattutto madre, nel cui grembo tornare nel "contrario di un nascere" ("Bambino al caldo muschio e tana madre", 1.4; "E ancora sempre in voi sempre frugando / Il buco nella rete: / O giusto dove o mio propizio quando", 11.5; "Vi sbircio infante a madre/ Pube e nube vi spio", 111.2; fino alla lenta rappresentazione di Vll.3: "Ma ancora piu quel gioco che fingevo / Essere dentro il sogno che premevo / A voi la guancia in voi stretta la testa / All'alvo onde pertugio è di floresta - / Se mai per naturale / Capovolta burella / Il contrario di un nascere inventare I Assunto a pancia e stella: / Là dove pur ben desta / Mi propiziaste entrare / Madremente complice canestra"); Minne infine in competizione con l' "inchiostro", con la poesia stessa come oggetto d'amore ("Verginale uxorio vedovile / Se più del conno vostro / Il sospetto che amassi io quest'inchiostro /V'infuria, vi fa impazzire", 111.8). Da quanto si è detto prima e da quanto si può vedere da queste rapide citazioni, si capirà che sarebbe ozioso o forse riduttivo tentare di precisare riscontri trobadorici alle poesie di Salutz, che certo non mancano: dall'elogio della dama callipigia (di tradizione niente affatto petrarchesca) ad alcune voci alquanto caratterizzate (fuori che in provenzale, per esempio, si è mai parlato del "costato" di una donna?) fino al tipo di rapporto tra amante e amata (di sottomissione, ma al tempo stesso tutt'altro che idealizzato). Ma non è questo il punto. Se è fondata l'ipotesi di cui sopra, l'evocazione di un simile modello significa prima di tutto la conquista di un nuovo spazio alla lirica, che è principalmente lo spazio del desiderio, dominato dalla macrometafora dell'amore. In questo senso, il salto linguistico di Giudici viene quasi da sé: tratto vistosissimo del libro, questa lingua poetica illustre non va intesa, lo si ripete, come un fine, ma va strettamente correlata allo spostamento del punto di vista generico. Allo stesso modo, l'oscurità di Safutz non è realmente tale: basta un minimo sforzo di ricostruzione logica della sintassi, di penetrazione in un lessico talora ipercolto o arcaico o semanticamente deviato per procedere senza eccessivi intoppi in questa lirica e per apprezzare anzi l'allegria di un linguaggio che riesce, alla fine di questo secolo, ad appropriarsi senza alcun intento parodico dei materiali di una tradizione non solo medievale. Che questo libro rappresenti quindi una svolta o un salto nella poesia di Giudici non c'è dubbio; non solo, la prospettiva stessa da cui guardare a questo poeta appare ora modificata, sicché va forse corretta l'enfasi posta dalla critica sulle componenti 'realistiche', neocapitalistiche, urbane o impiegatizi nella precedente produzione di Giudici: componenti che non sono certo frutto di fantasie di lettura, ma che convivevano già prima in una pluralità di registri e di generi, accanto a ingredieti che trovano ora in Safutz la loro matura definizione. Un passo decisivo sembra dunque fatto, nella direzione che dicevo, e decisivo non soltanto per la storia poetica dell'autore ma per tutta la poesia italiana di questi ultimi decenni. Che poi questo cambio possa continuare a sostanziarsi, al di là della misura anche numericamente conchiusa dell'opera, di allusioni a una remota poesia-madre (sia pure più sotto forma di tessera che di apophrades o ritorno dei morti, per riprendere due delle sei categorie di Bloom) sembra lecito dubitare. Ma una nuova strada per la lirica è stata aperta, è una strada che può portare lontano, e Safutz, oltre a essere uno dei libri di poesia più felici di questi anni, è un invito a percorrerla. Nota. I principali libri di Giudici anteriori a Salutz sono la vita in versi, Milano, Mondadori, 1965; Autobiofogia, ivi, 1969; O beatrice, ivi, 1972; /f male dei creditori, ivi, 1977; /f ristorante dei morti, ivi, 1981; lume dei tuoi misteri, ivi, 1984. Tra gli interventi più
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