to, con moto uguale e scorrevole gli faceva intorno la ruota, scoppiò sonoro l'applauso di tutti. Con un certo sforzo, egli si risollevò; con un tenero, simpatico gesto afferrò la figliuola per le orecchie, e datole un bacio in fronte, la condusse qua da me, pensando che fossi quello con cui lei ballava. Io spiegai che non ero il suo cavaliere. - Oh, non importa: fate voi, ora, un giro con lei, - mi rispose con un sorriso carezzevole, mentre di nuovo infilava la spada del fodero. Come quando da una bottiglia basta che si versi una goccia, perché tutto il contenuto ne venga fuori a gran fiotti, così anche nell'anima mia l'amore per Vàrenka aveva liberato tutta la capacità d'amore che vi si celava dentro. In quei momenti, io abbracciavo il mondo intero con il mio amore. Amavo la padrona di casa, con quellaferronnière e quel busto elisabettiano, amavo suo marito, e i suoi invitati, e i suoi camerieri, amavo persino colui che m'aveva soffiato la mazurca, l'ingegner Anìsimov. Quanto poi al padre di lei, con i suoi stivali di fattura militare, e con quel sorriso carezzevole così simile a quello di lei, io sentivo per lui, in quei momenti, una tenerezza estasiata. La mazurca ebbe termine; i padroni di casa invitarono gli ospiti a cena; ma il colonello B. si schernì, dicendo che l'indomani si doveva alzar presto, e si congedò da loro. Già m'ero spaventato al pensiero che avrebbero portato a casa anche lei: invece, restò con la madre. Così, finita la cena, ballai con lei la quadriglia promessa, e benché la mia felicità fosse (a quanto avrei detto) sconfinata, pure s'andava facendo sempre più grande, più grande. Tra noi, non si parlava affatto d'amore; io non facevo né a lei né a me stesso neppure la domanda se mi volesse bene. Mi bastava che le volessi bene io. E avevo una sola paura: che qualche cosa non venisse a guastare la mia felicità. r:, uando fui rincasato, mi fui tolto il soprabito, e pensai li.JI che dovevo dormire, m'accorsi che mi sarebbe riuscito assolutamente impossibile. Avevo lì, in mano mia, quella piumetta del suo ventaglio, e tutto un guanto di lei, che mi aveva lasciato nell'andarsene, mentre s'accomodava in carrozza, dove io avevo aiutato a salire prima la madre e poi lei. Guardavo, ora, questi oggetti, e senza socchiudere gli occhi me la rivedevo dinanzi, com'era quando, scegliendo fra due cavalieri, indovinava la mia parola distintiva e riudivo la sua cara voce di quando diceva: -Superbia, vero? - e lietamente mi offriva il braccio; e la rivedevo, a cena, sorseggiare dalla coppa di champagne e di sottecchi fissare su me, carezzevoli, le pupille. Ma soprattutto la rivedevo in coppia col padre, quando con moto scorrevole gli si muoveva a fianco, e fiera, esultante di se stessa e di lui, allungava lo sguardo agli spettatori ammirati: e mi veniva naturale riunirli tutt'e due insieme in un unico senso di tenerezza e di commozione. Abitavamo soli, a quei tempi, io e il mio povero fratello. Mio fratello, già non era amante della vita di società, e non frequentava i balli, eppoi, in questo momento, si preparava BibliotecaGino Bianco APERTURA/TOLSTO7J agli esami di laurea, e quindi conduceva una vita morigeratissima. L'avevo trovato che dormiva. Diedi un'occhiata alla sua testa, affondata là nel guanciale e nascosta a mezzo dalla coperta di flanella e fui invaso da un'amorosa pietà di lui, una pietà che egli non conoscesse e non potesse condividere con me quella felicità che io avevo dentro. Il servo di nostra proprietà, Pjetrùsa, m'era venuto incontro con la candela per aiutarmi a svestirmi: ma io lo rimandai, che si coricasse pure. La vista del suo viso assonnato, coi capelli tutti arruffati, mi parve toccante, da stringere il cuore. Cercando di non far rumore, sulle punte dei piedi, passai in camera mia, e mi sedetti sul letto. Macché, ero troppo felice: non potevo dormire. Per giunta, mi sentivo bruciare in queste stanze surriscaldate: e così, senza togliermi l'uniforme, pian piano riuscii in anticamera, indossai il mantello, aprii la porta di casa, e fui in istrada. Dal ballo ero uscito che erano già le cinque; fra il tempo per arrivare a casa, e quello perduto lì in casa, erano passate altre due ore: sicché, quando uscii di nuovo, era ormai giorno chiaro. Era proprio un tempo da carnevale: nebbia fitta; la neve, pregna d'acqua, dimoiava per le vie, e da tutti i tetti era un cader di gocce. Abitavano i B., a quei tempi, alla fine della città, presso un grande sterrato a un'estremità del quale si trovava un luogo di passeggio, all'altra un istituto di ragazze. Percorso il nostro vicolo solitario, io sboccai su una via principale, dove incominciavano a incontrarsi sia pedoni sia carrettieri, con carichi di legna sulla slitte, che affondavano i pattini fino a toccare il lastricato. E tanto quei cavalli, che cadenzatamente, sotto i gioghi rilucenti, dondolavano le teste bagnate, quanto quei vetturali ricoperti da una stuoia, che diguazzavano cogli stivali enormi di fianco ai carichi, e perfino le case di quella via, che così tra la nebbia figuravano altissime, ogni cosa mi riusciva singolarmente simpatica e piena di significato. Quando sboccai su quello sterrato, dove sorgeva l'abitazione loro, avvistai là in fondo, in direzione del passeggio pubblico, non so che grossa macchia nera, e distinsi, provenienti di là, suoni di flauto e di tamburo. L'anima mia continuava senza cessa a cantare, e tratto tratto mi risonava il motivo della mazurca. Ma qui si trattava di tutt'altra musica, cruda, inquietante. «Che cosa sarà?» pensai, e per una viscida pista che solcava per mezzo lo sterrato, m'avviai in direzione dei suoni. Quand'ebbi fatto un centinaio di passi, fra la nebbia incominciai a distinguere numerose, nere figure umane. Indubbiamente, soldati. «Staranno facendo istruzione», pensai; e con un fabbro in pelliccetta bisunta e grembiale, che, portando un involto, mi precedeva, m'inoltrai più da presso. Soldati in divisa nera stavano ritti in due file a faccia a faccia, tenendo i fucili al piede, immobili. Di là da loro, c'erano dei tamburini e un flautista, e ininterrottamente ripetevano sempre la stessa sgradevole, stridula melodia. -Ma che cosa fanno? - domandai al fabbro, che mi s'era fermato a fianco. - Puniscono un tartaro che ha cercato di disertare, - rabbio-
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