"La nostra guerra, sì. Ma tutte le guerre sono solo il riflesso di una guerra che ha avuto inizio nell'universo con la creazione. L'essere è in guerra col non-essere. La luce contro le tenebre." "E noi da che parte stiamo?" "Non lo so, si cambia sempre parte. Dobbiamo scoprire qual è per noi l'atto sacro, o non ci sarà cibo, non ci sarà sostentamento. Lo sai di cosa sto parlando, Weston? Non sto parlando di scopate." "O.K." "Raccontami del sogno." "Te l'ho detto. Ho sognato il diavolo." "Mmmm." Matlocke sbattè le palpebre, cappucci su occhi di pietra. Come in tutti i suoi movimenti, c'era in questo qualcosa di ponderoso e sottile: doveva superare una specie di inerzia, poi l'azione diventava inesorabile. Gli ci sarebbe voluta tutta la giornata, a prepararsi per andare sulle colline, ma alla fine sarebbe andato. Quest'uomo è una forza, pensò Weston con invidia. Era sempre stato così. Quella storia del sesso. Weston, quando l'ardore della carne l'aveva spinto a parlarne, si era sempre trovato di fronte un Matlocke impenetrabile, restio a ricordare, e così da principio l'aveva considerato un essere asessuato, o finito, sotto quell'aspetto. Gli ci era voluto molto tempo per capire che Matlocke era stato un uomo capace di amore profondo, un amante coraggioso, senza dubbio; ma (come aveva detto Matlocke) senza il veicolo, il punto focale, l'ossessione, il sesso era stato accantonato. Non ne avrebbe mai più avuto bisogno. La cosa infastidiva Weston, che avrebbe voluto risvegliare Matlocke. Ma se l'avesse fatto, cosa sarebbe successo? Weston disse: "Chissà se Nostra Signora del Gabinetto ha mai letto quel libro. Chissà dov'è adesso. Forse fa ancora la puttana a Calcutta. " Forse fu il riferimento alla Bhagavad-Gita, a coinvolgere Matlocke. I suoi occhi frugarono Weston. "Impazzirai, se continui così. Lo sai dove siamo. Lo sai che non c'è niente da fare." Weston schiacciò la sigaretta con lo stivale. Uno sbatter di palpebre. Un respiro. Un respiro. Uno sbatter di palpebre. Il cielo era pieno di strisce rosse d'alba; la terra, tutte le cose, erano piantate in un azzurro d'acciaio. Un gallo aveva annunciato il mattino, in lontananza, ma gli insetti e gli uccelli non si erano ancora svegliati. Era partito dal campo a mezzanotte, con il mitragliatore Uzzi assicurato alla spalla destra con cinghie improvvisate, e si era diretto a sud, verso le colline e il ricordo degli spari. Ora si era fermato a riposare vicino a un baobab. Stava mangiando carne secca e bevendo acqua da una borraccia militare. Finito il pasto, Matlocke si inginocchiò a fatica, si chinò sulle mani nodose e pregò, a voce alta, ma piano. Le parole le aveva messe insieme tanto tempo fa: Dio onnipotente, creatore dell'universo, Gesù Cristo, Krishna: fate che trascorra la giornata in azioni giuste, e che non debba uccidere. Se ucciderò un uomo, preservate il suo essere. Se verrò ucciso, salvatemi dall'Annientatore." Dimenticò i sensi e si ritirò in se stesso, in centri più segreti di potere, e intanto respirava profondamente. Quando aprì gli occhi per sbatter le palpebre e respirare, divenne conscio di ogni movimento e odore nel paesaggio vibrante. Si tolse gli occhiali e li pulì BibliotecaGino Bianco STORIE/WILHELM81 meticolosamente. Un giorno, lo sapeva, si sarebbero rotti, e non avrebbe più visto. Per Matlocke, il problema della miopia era fastidioso. Credeva che il corpo prendesse forma intorno all'anima, quindi i suoi occhi affaticati erano il sintomo, l'annuncio di un'imperfezione non accertata, forse non accertabile. Perfino il corpo era un campo di battaglia, nella grande guerra che percepiva, e, malinconicamente, riconobbe che certe parti di lui stavano venendo meno. Ora si muoveva con enorme cautela, sul terreno rialzato dove gli alberi spinosi erano più fitti e più bassi che in pianura. Conscio di quanto fosse facile per un elicottero sorvolarlo, vederlo, e scender giù con violenza, si teneva relativamente al coperto, con l'istinto di un topo di campagna. Così, quando sentì un sonoro scroscio di risa maschili, vicino, non trasalì. Sapeva cosa fare. Si stava avvicinando alla sommità di un'altura - sopra un ammasso disordinato di rocce e vegetazione c'era una piccola depressione che terminava in un dirupo quasi verticale. La pioggia aveva eroso strati orizzontali di arenaria, a strisce dalle varie sfumature del rosso e del marrone, creando torrette verticali. Da qualche parte, al coperto, là sotto - uno spazio di circa trenta metri, probabilmente attraversato dal letto asciutto di un fiume - c'erano gli sconosciuti. Erano tranquilli, non si aspettavano alcuna sorpresa. Era assolutamente necessario che Matlocke scoprisse la loro identità. Si lasciò cadere senza fare rumore sullo stomaco e strisciò su per il pendio. Man mano che si avvicinavaal punto dal quale avrebbe potuto vederli, cresceva la sensazione soffocante di pericolo; se gli uomini là sotto non erano soli, se c'erano altri drappelli, la riuscita dell'impresa sarebbe dipesa unicamente dalla fortuna. Era proprio quello che Matlocke non voleva, ma non c'era niente da fare. Alla fine si trovò a guardare (e avrebbe potuto ucciderli) tre uomini con l'uniforme improvvisata dei guerriglieri e il cappello da bush. Le armi erano a terra, a portata di mano, ma incustodite. Avevano aperto una scatoletta di cibo e ne stavano distribuendo il contenuto. Erano le otto: ora di colazione. Matlocke notò che non avevano nemmeno tentato di fare un falò, nonostante il letto sabbioso di un fiumiciattolo asciutto fosse pieno di rami secchi. O non avevano il caffé, oppure preferivano non rivelare la loro posizione con il fumo. Matlocke sudava, nella terra e negli occhiali. Sbattè le palpebre, frustrato, e finì per togliersi gli occhiali e asciugarli con la camicia. Ora tutto era annebbiato da macchie di sale. Krapp era ubriaco. Quella mattina aveva preso un'altra foto da primo premio ("sicuramente", aveva detto), e la stava mostrando in giro nella cantina che la magnanimità dello FPLA aveva trasformato in bar per i giornalisti. Era una foto davvero impressionante: una bambina piangente in un edificio bombardato. Intorno alla piccola, sui cinque anni, tutto era distruzione, e la figurina risaltava come un piccolo miracolo piangente. Un'immagine del genere non era eccezionale, data la situazione, tranne che per un particolare: un braccio carbonizzato che si protendeva dentro il quadro come a carezzare i capelli della bambina. L'effetto generale era di pathos grossolano: il morto che consolava il vivo. Krapp era molto orgoglioso del suo lavoro. Per Krapp, le forme contorte dei morti - e le emozioni fuse dei
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==