Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

DISCUSSIONE falla, è forse lo stesso Dio-farfalla. L'iguana è infatti il libro della rivoluzione fallita, e cioè del mondo decaduto a merce ed apparenza. Da qualche parte, da qualche caverna l'essere randagio, che ha il corpo di una donna, ci invia così il suo ammonimento. La fissazione della nostra storia in storia naturale, in incubo (attenuato solo dall'andamento musicalmente mosso, quasi scherzoso del racconto, dal ricorso talvolta ad una lingua antiquata, segnalazione di una qualche preistoria) è quanto di meglio ci potesse giungere da quell'esperienza di freddo, con la quale avevo aperto queste pagine. Questo libro, mi pare, getta una nuova luce su quella divisione di cui parlavo all'inizio tra scrittori ben insediati nel mondo e scrittori che non lo sono, non possono esserlo. Si è detto che L'iguana è in qualche modo un omaggio al Manzoni. Forse. Ma certamente passando per Leopardi, per la sua esperienza di freddo cosmico. I COMPORTAMENTIDELLAMUSICA Alessandro Baricco Analogamente a quelli di certi immensi imperi del passato, i confini della musica colta hanno un che di ipotetico e insieme di certissimo. Nessuno sa bene dove sono, ma è chiaro che da qualche parte ci sono. C'è una geografia dell'esperienza musicale che disegna e sancisce frontiere ineludibili e meticolose: quelle per cui, comunque la si rigiri, a Brahms e ai Beatles competono paesaggi e idiomi differenti. Ma le mappe di un simile mondo restano vagamente fiabesche, volutamente imprecise e sempre provvisorie. Con imperturbabile ed efficace ottusità le usa l'industria culturale, facendole passare per vere, e disegnando su di esse una spartizione in mercati che ha ormai rivelato una felice funzionalità. La gente, a tale efficace superficialità, si allinea di buon grado: e diligentemente si mette in coda, ognuno al suo sportello, no guardi per Mozart deve andare allo sportello 6, ah scusi credevo fosse qui, no qui c'è il jazz, non vede le foto di Miles Davis? Come spesso accade, anche qui l'infondatezza del sistema non incrina la sua funzionalità: conformemente a un verdetto che perfino la filosofia, che è la scienza dei fondamenti, si è rassegnata ormai a controfirmare. Come spesso accade, però, anche qui la tendenza a dimenticarsi dell'infondatezza di partenza tributando alla convenzione un preciso valore di verità si fa strada spesso e volentieri. In tale operazione si distingue, per pervicacia e pedanteria, il consumatore di musica colta. È lui, più di qualsiasi altro, che teme un rimescolamento delle carte e che tende dunque a considerare l'ordine stabilito come un a priori indiscutibile, e vero. Il perché è elementare: del mondo della musica il consumatore di musica colta è convinto, non sempre a torto, di abitare la Svizzera: un'oasi nel mare della corruzione del gusto. Nel difendere l'ordine stabilito egli difende la propria diversità, e il proprio primato. Più di quanto si sia disposti in genere ad ammettere, si tratta in verità di una crociata tanto energica quanto cieca: il consumatore di musica colta difende qualcosa che non conosce. Come in certi immensi imperi del passato, anche qui è più facile trovare qualcuno disposto a combattere per i confini del regno che qualcuno che quei confini li abbia visti. Sulla diverBibliotecaGino Bianco sità della musica colta poco ci si interroga: ridotta a ipostasi senza fondamento fa da guanciale teorico ai sonni del perbenismo in abbonamento. Perfino i teorici di professione mostrano qualche imbarazzo ad abbozzarne una legittimazione. Perché mai dovrebbe essere in grado di farlo proprio la gente? Se si chiedesse alla gente, alla gente dei concerti, cosa mai distingua la musica colta da quella leggera, Berio da Sting, ci si farebbe finalmente un'idea della quantità di equivoci che circola sulla faccenda. È facile presumere che, con quella intelligenza sintetica che è la controparte della desuetudine a riflettere, la gente metterebbe a fuoco alcune argomentazioni-base del tipo "la musica classica è più difficile, più complessa" oppure "la musica leggera è un fatto di consumo e basta, quella classica invece ha un contenuto, una natura spirituale, ideale". Frasi come queste condividono con qualsiasi altro luogo comune il 12rivilegiodi pervenire al vero passando per la strada del falso. E doveroso riconoscervi le due facce di un'unica convinzione: che la musica colta è tale in quanto evade, in virtù della superiore articolazione del suo linguaggio, dai confini dell'immanenza introducendo in un al di là non ben indentificato, ma comunque coniugabile approssimativamente con parole come cuore, spirito, verità. Di un simile pregiudizio, come di tanti altri, si dev'essere debitori al romanticismo; e al suo protomartire: Beethoven. È probabile che egli abbia svolto una funzione, nella storia della musica, affine a quella che, nella storia del pensiero, Nietzsche attribuisce a Socrate: quella di sacralizzare una pratica fino ad allora squisitamente laica, per non dire commerciale. In Beethoven, per la prima volta e sotto la legittimazione del genio, si dà una decisiva concomitanza di fattori: la musica avanza esplicitamente una qualche ambizione alla sfera dello spirituale e non solo del sentimentale, il musicista mira a evadere dalla natura commerciale del suo lavoro, il linguaggio musicale raggiunge una complessità che sfida spesso le capacità ricettive di un normale pubblico. Questi tre elementi diedero vita a una formula che, complice il fascino patetico del personaggio (il genio malato e solo) conquistò la fantasia del nuovo pubblico emergente, quello borghese, fornendo alla musica dei suoi salotti una identità eletrizzante che bene rispondeva alla generale aspirazione a una qualche nobiltà. Ideologicamente, l'espressione "musica seria" nasce lì. Il casoBeethoven, che poteva essere semplicemente un'eccezione dettata dall'ipertrofia di un genio, divenne in realtà la regola, tempestivamente abbracciata dagli emuli romant1c1 e proditoriamente estesa, a posteriori, su generazioni di ignari musicisti sei-settecenteschi,quelli che mangiavano al tavolo dei servi e si guadagnavano il pane scrivendo niente di più e niente di meno che buona musica di consumo. Da allora le cose non sono più cambiate. Ideologicamente il pubblico della musica colta è ancora fermo a Beethoven: nemmeno gli orrori di certa Nuova Musica, perpetrati proprio in nome di quella ideologia, sono riusciti a smuoverlo di lì. Ciò che in Beethoven quanto meno si dava nella forma di una conquista rischiosa e tutta da verificare, oggi si concede come un'acquisizione ovvia e consumata senza mediazioni. Il gesto arbitrario che sottrae la musica colta dal regno del consumo puro e semplice dislocandola nell'ipotetico orizzonte di una qualche "spiritualità", si è tradotto ormai in un precetto che ha la perentorietà ottusa di uno slogan pubblicitario. Se assunto in questo modo, come un titolo nobiliare piovuto dal cielo, esso in nessun modo può essere utilizzato per fondare la "diversità" della musica colta. Perché se è vero, .come intuisce il buon senso comune, che l'anomalia della musica colta sta proprio in quel suo non lasciarsi risolvere nell'immediatezza del momento del consumo, è altresì vero che questa sua ridondanza rispetto a ciò-che-semplicemente-è non va intesa come un dato di fatto stabilito una volta per sempre, ma come un qual-

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