Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

DOPOILBALLO Lev N. Tolstoj ~eco, voi dite che l'uomo non è in grado d'intendere, di liiilper se stesso, dove sta il bene e dove sta il male; che tutto dipende dall'ambiente; che l'ambiente ha un'azione corrosiva. E io, per conto mio, penso che tutto dipende dal caso. Parlo, s'intende, di me stesso .... Così incominciò quella persona da tutti stimata, ch'era Ivàn Vasìljevic, dopo una conversazione, svoltasi fra noi, su come il perfezionamento individuale presupponga necessariamente un mutamento delle condizioni in cui gli uomini vivono. Nessuno, precisamente, aveva detto che sia impossibile, di per se stessi, intendere dove stia il bene e dove stia il male; ma Ivàn Vasìljevic aveva quest'abitudine di rispondere ai suoi propri pensieri, quali gli nascevano dalla conversazione, e di raccontare poi, a proposito di codesti pensieri, episodi della sua stessa vita. E spesso gli accadeva di dimenticar completamente l'argomento, a sostegno del quale aveva incominciato il racconto, lasciandosi prender tutto dal racconto stesso: tanto più che era un narratore assai schietto e felice. Così fece anche stavolta. - Io parlo di me stesso. Tutta la mia vita s'è configurata così, e non altrimenti, non già per effetto dell'ambiente, ma per effetto di tutt'altra cosa. - E di che cosa, dunque? - Mah, sarebbe una storia lunga. Per capir bene, bisognerebbe raccontare parecchio. - E voi, su, raccontate! Ivàn Vasìljevic restò un pochino assorto, scrollando la testa. - Sì, - disse. - Tutta la vita mia è mutata da fondo per effetto d'una sola nottata, o meglio d'un mattino. - Ma che cosa ci fu? - Ci fu che io, a quei tempi, ero violentemente innamorato. Ero già stato innamorato molte volte, ma qui si trattava del più violento amore ch'io abbia mai avuto. Sono cose passate da un pezzo: lei, ormai, ha una figliuola maritata. Era la B.: sì, Vàrenka B., - e Ivàn Vasìljevic fece il cognome. - Ancora a cinquant'anni era una bellezza non comune, ma da giovane, a diciotto anni, era un incanto: alta, armonica, aggraziata, e poi piena di maestà, di maestà soprattutto: stava sempre singolarmente diritta, come se le fosse impossibile tenersi in altro atteggiamento, la testa un pochino rigettata all'indietro: e questo, insieme con la bellezza e l'alta statura, le dava, per quanto fosse magra e perfino ossuta, un certo aspetto da regina, che avrebbe messo soggezione e tenuto discosti da lei, se non fosse stata l'affabilità, la perenne giocondità del sorriso, che emanava da quella bocca, da quegli occhi magnifici, luminosi, e da tutto quel caro, giovane essere. - Sentite, sentite Ivàn Vasìljevic come dipinge bene! - Eh, si potrebbe dipingere bene quanto volete, non si riuscirebbe mai a farlo in modo da darvi un'idea di com'era quella ragazza; ma non si tratta di questo: quel che voglio raccontarvi, accadde verso il 1840. Io ero studente, allora, in un'università di provincia. Non so se fosse un bene o un male, ma certo è che allora, lì alla nostra università, noi altri non avevamo circoletti di sorta, non seguivamo nessuna teoria: eravamo, semplicemente, dei giovani, e si viveva come si conviene BibliotecaGino Bianco alla gioventù: si studiava e ci si divertiva. Io ero un allegrone, pieno di vitalità, e per giunta ricco. Possedevo un focoso cavallo, mi gettavo giù in slitta per le discese con le signorine (pattinare non era ancora di moda), facevo baldoria coi compagni (non si beveva, allora, nient'altro che champagne: se i quattrini non c'erano, non si beveva niente; ma l'acquavite non si beveva, come fanno adesso). Il mio piacere più grande, però, erano i ricevimenti e i balli. Ballavo bene, e non ero un mostro. - Via, via: non facciamo tanto il modesto, - lo interruppe una delle signore che prendevano parte alla conversazione. - Conosciamo benissimo, sapete, quel vostro ritratto ancora in dagherrotipia. Non solo non eravate un mostro: eravate un bellissimo giovane! - Sarò anche stato un bellissimo giovane, se così volete: ma la questione era un'altra. La questione è questa, che proprio nel periodo più violento del mio amore per lei, l'ultimo giorno di carnevale, io intervenni a un ballo dato dal maresciallo della nobiltà, vecchiotto bonario, pieno di quattrini, cordialmente ospitale, nonché ciambellano. Faceva gli onori di casa, altrettanto bonaria quanto lui, sua moglie, in abito di velluto d'Utrecht, con tanto di ferronnière di brillanti sulla fronte, largamente denudate le vecchie, soffici, bianche spalle e il seno, come nei ritratti dell'imperatrice Elisabetta. Il ballo era magnifico. Una sala bellissima, coi coretti sospesi; suonatori scelti, di proprietà (c'era ancora la servitù della gleba) d'un possidente musicofilo; buffet sontuosissimo, e un vero mareggiare di champagne. Sebbene, dello champagne, io fossi un buongustaio, pure non ne toccai, poiché già senza bere ero ubriaco d'amore; in compenso, ballai fino a stramazzar per terra, e valzer e polche: quanto più era possibile, naturalmente, sempre con Vàrenka ... Essa aveva indosso un abito bianco con una cinta rosa, e, pure bianchi, dei guanti g/acés, che di poco le lasciavano scoperti i gomiti puntuti; bianche, di raso, le scarpine. La mazurca mi fu soffiata dal mio rivale, l'ingegner Anìsimov (ancora oggi non gliela posso perdonare!): l'avevo invitata, infatti, appena entrata in sala, mentre io, per passare dal parrucchiere, a comperare i guanti, avevo fatto tardi. Cosicché la mazurca mi toccò di ballarla, invece che con lei, con una tedeschina, alla quale avevo fatto un po' di corte in tempi antecedenti; ma temo che, quella sera, dovetti essere assai poco cortese con lei: non le dicevo una parola, non la guardavo: non avevo occhi per altro che per quella slanciata, armonica figura dal vestito bianco e dalla cinta rosa, e per quel viso raggiante, con le gote accese intorno alle fossette, e per quegli occhi così carezzevoli, così simpatici. Non ero io solo a guardarla, tutti la guardavano ed erano entusiasti di lei: entusiasti sia gli uomini sia le donne, benché quest'ultime fossero tutte offuscate da lei. Sarebbe stato impossibile non sentirsene entusiasti. Formalmente (per così dire), la mazurca la ballai con un'altra, ma in sostanza continuai a ballarla quasi ininterrottamente con lei. Essa, senza turbarsi, attraversava diritta diritta tutto il salone verso di me, e io balzavo su senz'aspettare l'invito, e allora lèi, con un sorriso, mi ringraziava della mia perspi-

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