Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

In questa atmosfera, che guardava con sospetto alla poeticità, come più o meno volontariamente complice del fascismo, appare nel 1953quel Mare non bagnaNapoli per il quale Anna Maria Ortese ottiene il premio Viareggio. Era il primo libro dopo un lunghissimo silenzio. Nel 1937 era apparso Angelici dolori, che era piaciuto molto a Massimo Bontempelli e che sicuramente faceva parte di quelle esperienze novecentiste cui il dopoguerra guardava con sospetto. C'era allora un' Anna Maria Ortese neorealista? Una svolta? Una concessione alle mode del tempo? Un bisogno di conformarsi? Il discorso è forse più complesso. Ma, a mio parere, la risposta è già tutta dentro al Mare non bagna Napoli: un viaggio simbolico attraverso la città ma anche attraverso l'esperienza politica dei gruppi rivoluzionari di quel periodo. All'interno di questo libro, dai primi racconti, Un paio d'occhiali, Interno familiare, che sono quelli che concedono di più e con più facili effetti al modello neorealistico, assistiamo ad un progressivo quanto inesorabile distacco da esso, che ha come stazione mediana il racconto La città involontaria e culmina nel Silenzio della ragione, l'ultimo pezzo. Dopo la patetica descrizione della bambina miope, infatti, dei sacrifici sostenuti per comprarle un paio d'occhiali, ai quali, nonostante l'enorme spesa, non riesce ad abituarsi, attraverso la mediazione del quartiere dei Graniti (nel racconto La città involontaria) incomincia il vero e proprio viaggio in una specie d'inferno, che ha tutto l'andamento del servizio commissionato ad un inviato speciale, da una misteriosa divinità. Nell'ultimo pezzo questa divinità si rivela essere la ragione stessa costretta al ritiro dalla natura, da quel "genio materno conservatore" che aveva messo a tacere le velleità rivoluzionarie dei suoi figli, descritti come i resti di una truppa decimata. Qualcuno finge di essere ancora in vita, ma colui che è stato il capo indiscusso di quella truppa " ... e segnalando ora questo o quel nome, scavando o facendo scavare dai suoi compagni in questo o quel fatto ... si batteva per un ritorno della coscienza, un aprirsi della letteratura verso la cronaca, dove secondo lui, era rifugiata la vita ... ", colui che aveva osato pensare tutto questo era scomparso, debellato da quel genio locale che non sopporta i cambiamenti. Al suo posto c'era un morto vivente. L'inviato speciale passa in rassegna quel vecchio gruppo e tra quei morti viventi contempla "il luogo dominato dalla natura dove la ragione dell'uomo deve morire". E così, attraverso la descrizione della fine di un'esperienza umana e politica, che diventa metafora di più vasti fallimenti, fissandosi nell'opposizione tra storia naturale e storia sociale, sono anche chiusi severamente i conti col neorealismo di quegli anni, con i suoi limiti espressivi. Mi immagino che sia stato difficile per Anna Maria Ortese scrivere altri libri, dopo. Eppure ne ha scritti tanti. In che senso dico che deve essere stato difficile? Nel senso che la maggior parte dei libri che sono apparsi in seguito mi sembrano in contraddizione, almeno parzialmente, con le estreme conseguenze cui era pervenuto Il silenzio della ragione. Certo, in Silenzio a Milano (ripubblicato quest'anno dalla Tartaruga), che riprende con toni neoveristi i temi dello sradicamento, dell'immigrazione, ci sono pagine di delicata bellezza. Seguiranno nel 1967 Poveri e semplici e nel 1979 li cappello piumato, ma quei tentativi di cronaca di intellettuali del dopoguerra, sbarcati a Milano, risultano inferiori alle coraggiose conseguenze che la scrittrice aveva saputo trarre nel Mare non bagna Napoli. L'anno in cui riappare la grande meditazione è il 1965. In quel!' anno la scrittrice ritorna infatti alla favola filosofica e riprende il discorso iniziato nel Silenzio della ragione, pubblicando L'iguana. BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE Una favola filosofica L'iguana è stato ripubblicato quest'anno dalla casa editrice Adelphi. Dicevo prima che in questo libro è sempre la ragione in ritiro del Mare non bagna Napoli, provvisoriamente sconfitta, che decide di rimettersi in viaggio. E romanticamente sceglie l'immaginario, la storia fantastica come unico terreno sicuro per le sue indagini. In questo senso vedo una rigorosa continuità tra i due romanzi. Tutti gli altri, compreso l'ermetico Porto di Toledo, del 1975 (ristampato ora nella BUR), mi appaiono parentesi, pause di questa ardua meditazione. L'eroe della storia è un dolce e sprovveduto conte milanese. Maliziosamente, si accenna a un editore, suo amico, assetato di novità, che lo manda in giro per il mondo, sapendolo disponibile, alla ricerca di manoscritti meravigliosi, capaci di alimentare la capricciosa macchina dell'editoria. Daddo giunge nell'isola di Ocafia, e qui incontra il marchese Don Ilario, signore decaduto del luogo. Di qui incomincia anche il contatto con un'oscura ambiguità, troppo pesante per l'inerme conte milanese, che sfocia nel suo innamoramento per una strana figura, ora servetta coperta di stracci, ora animale, le cui forme visibili corrispondono a quelle di un'iguana. Il racconto, tutto attraversato dalle più disparate influenze, dal vero e proprio racconto d'avventura al racconto utopico dei viaggi in terre sconosciute, ha come suo centro inquietante quella figura d'animale. Ma Ocafia non è un eden come nei racconti utopici che scoprivano dei modelli di civiltà incontaminata. È un paradiso decaduto. Di questa decadenza portano le tracce tutti i suoi abitanti. Il candido conte Daddo non sopravviverà al contatto con questa realtà mostruosa, con l'animalità, dolorosa e maligna ad un tempo, che lo costringe alla scoperta che Dio è morto, che forse non era altro che una farfalla trafitta. L'intuizione centrale che contempla la storia pietrificata in natura è il filo segreto che torna a rivelare, dietro una maschera ironica, il sonno della ragione. E io penso che solo da un corpo di donna, randagio quale inizialmente l'ho descritto, solo da un'esperienza così intensa di freddo potevano nascere delle pagine così penetranti sull'essere animale, sul senso di questa presenza sulla terra. L'iguana, espressione di un mondo decaduto in cui si sono instaurati rapporti di forza, riassume tutte le figure precedenti di A.M. Ortese, soprattutto quelle femminili in cui la mancanza di grazia è mancanza di amore, assoggettamento da cui il corpo viene necessariamente marchiato. In genere, gli scrittori che hanno rivelato più compassione nei confronti dell'animale sono anche quelli che meno sopportano la condizione umana. Penso, fra i tanti, a Céline. Nonostante il tocco lieve, la grazia della favola, questa insofferenza tradisce anche Anna Maria Ortese. Sotto la descrizione maliziosa dell'essere si rivela l'esigenza del dover essere, lo sguardo del moralista. Forse la tentazione metafisica, che talvolta rivisita il Meridione, domina queste pagine, ne costituisce l'architettura: giacché in esse il male esiste. L'iguana che conta le sue pietruzze al chiaro di luna, come si trattasse di un tesoro, di soldi veri, è una delle scene più sorprendenti di questo allucinato viaggio in una specie di oltretomba dello spirito, dove, si sa, il denaro è una convenzione, ma pesante. In questo viaggio fantastico, dietro la maschera, l'Utopia viene continuamente evocata, ma è morta come il Dio - far-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==