Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

DISCUSSIONE "froid au cui" di cui abbiamo già parlato, non era più occultabile. In quell'articolo, ingigantendo abilmente dati reali del carattere della scrittrice, N. Aspesi descriveva una specie di animale inavvicinabile che aveva quel che si meritava, dal momento che aveva infranto le regole del gioco. Ma è anche vero che l'articolo della giornalista, abilmente malevolo, perché capace di far credere al lettore che solo l'altro - il personaggio in questione - sia la "vera" causa di quanto si va affermando, aveva, pur con intenzioni diverse, colpito nel segno. Mai come allora era stata così evidente, almeno per me, l'appartenenza di Anna Maria Ortese alla folta schiera degli scrittori randagi. Anzi, a poco a poco, per contrasto, dandomi lentamente a riflettere sulla natura di quell'accanimento che il suo atteggiamento selvatico aveva potuto scatenare nella cerchia snob, mi si delineò più chiaramente dinanzi agli occhi la collocazione di questa singolare figura. Apparizione del corpo Mi rendo ben conto che non si tratta del primo caso, della prima apparizione del corpo in senso assoluto, nella nostra letteratura, pur così scarsa di queste esperienze, così aulica e distante, astratta persino nel più acceso neorealismo, talvolta. È un corpo che viene dai bassi di Napoli. La visione è allucinata. Si colloca fuori della storia, sembrerebbe. Ma l'atmosfera è quella del nostro dopoguerra. I topi mescolati agli umani, la povertà e la fame come un'antichissima malattia rodono Napoli. Di qui viene fuori quel corpo randagio. Miracolosamente, è stato in grado di non soccombere. Anzi, ha salvato, come qualcosa di prezioso, lo sguardo. Unica par!e che sembra essere rimasta incolume per testimoniare. E uno sguardo che dall'estrema esattezza del dettaglio fa uscire la fissità dell'inferno. Da Napoli il corpo randagio, miracolosamente in grado di non soccombere alla degradazione, incomincia il suo vagabondaggio. Come quello di Rutebeuf, è un corpo che ha freddo, va in cerca di riparo e lavoro da una città all'altra. A poco a poco si scopre che è un corpo di donna, anche se da parte sua non sembra avere molto interesse a mostrarsi Anna Maria Ortese (foto di Martina Vergani). come tale. Virginia Woolf aveva detto che per scrivere una donna ha bisogno di autonomia economica e di una stanza tutta per sé. Continuamente in cerca di casa, con la involontaria comicità di certe immagini neorealistiche, questo corpo senza rendita va in cerca di una stanza tutta per sé e la trova in pensioncine di infimo ordine. Gli capita persino di sognare a occhi aperti: si immagina padrone di bellissimi appartamenti a Milano. Inventa stratagemmi, fingendosi vestito di altri abiti, assumendo i gesti di chi ha l'abitudine di maneggiare molti soldi. E intanto, nella realtà, trova riparo sempre in luoghi tetri e sgretolati che sembrano mantenere, come per destino, un filo segreto con i bassi di Napoli. Non ha nemmeno grandi capacità di lavoro, perché oltre che scrivere non sa fare molto. E scrivere non sembra essere molto redditizio. Articoli e servizi sono rincorsi come lepri da un cacciatore, anticipi per romanzi non ancora scritti spariscono prima della fine del mese, e cappotti e sciarpe vengono sognati come amori impossibili. In questa bohème del dopoguerra sembra concretarsi il singolare incontro fra il corpo randagio di una donna e le città del Nord in cui si trasferisce. Punto dalle mosche che avevano tormentato Rutebeuf molti secoli prima, sembra anche che esso sia quasi costretto a conservare la precarietà della sua esistenza come male necessario all'espressione. Ma la "bise" che fa sentir freddo nel secolo XX non è solo quella dell'inverno. È anche quella della Rivoluzione. È un vento a tratti ilare e malizioso: oltre a procurare "froid au cui" scuote le fondamenta delle istituzioni, simili a porte cigolanti, eccita speranze. Il corpo dello scrittore randagio, che abbiamo scoperto essere quello di una donna, è investito da questo vento come da una allegra epopea. Sembra che allontanandosi dai bassi di Napoli, sia finalmente riuscito a rompere l'incantesimo di una immobile forma. Qualcosa si muove, cambia. Ma sono solo le idee. Perché la materia, come "un genio materno conservatore" sembra essere sempre fustigatrice del corpo vagabondo, non concedergli requie e rifugio duraturi. Così, il crollo dei progetti rivoluzionari risulta essere alla fine il crollo stesso della ragione. Il suo silenzio è il proliferare della sofferenza e di tutti i mostri che l'accompagnano. Dall'esistenza alla letteratura Quando nel 1957 apparvero Le ceneri di Gramsci vi si leggeva tra l'altro: Come i poveri povero, mi attacco/come loro a umilianti speranze,/come loro per vivere mi batto/ogni giorno. Ma già da alcuni anni Pasolini, come teorico, su varie riviste, andava alla ricerca di costanti diverse dalla povertà mediante le quali raggruppare gli scrittori. Il contrasto, di cui si parlava prima, assume nei suoi scritti di quel periodo caratteri di opposizione linguistica. Sulle orme della famosa distinzione di Gianfranco Contini, Pasolini rintracciava nella letteratura italiana, da una parte, un monolinguismo di origine petrarchesca, una lingua lirica, chiusa sempre più rigidamente nello sforzo di innalzare tutta la prosa alla poesia. Dall'altra, un plurilinguismo di origine dantesca, la koiné da cui, a suo parere, nascevano le esperienze più significative dell'antifascismo del dopoguerra. Una lingua che, dopo la parentesi novecentista, dopo le esperienze decadenti, riprendendo la tradizione dei grandi prosatori dell'Ottocento tentava un altrettanto assoluto abbassamento alla prosa. E cioè, il perfetto contrario dell'esperienza novecentista. Questo era naturalmente solo uno schema e lo stesso Pasolini riconosceva incroci dei due tipi di scrittura (del realismo ottocentesco e della prosa d'arte del Novecento) in molti narratori contemporanei.

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