Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

DISCUSSIONE borghesia relativamente autonoma è stata accolta nel libro attuale), furono criticati anche i metodi di aggregazione e di equivalenza statistica usata. Alcune riviste dedicarono numerosi interventi al tema, la sinistra si sentì molto coinvolta e replicò e precisò. Il saggio di oggi si rivolge a un ambiente in cui ogni opinione marxista e affine sembra evaporata, e ha avuto un'accoglienza meno conflittuale ma più tiepida. La tesi però non è poca cosa. Si tratta infatti dell'affermazione della inesistenza delle classi sociali e del tendenziale affermarsi nel mondo dell'uguaglianza e della libertà, mentre il terzo grande principio della rivoluzione francese, la fraternità, è in continua latenza per impossibilità di realizzazione istituzionale. In effetti il libro parla di classi in un senso molto particolare, ritenendole in sostanza equivalenti agli "stati" dell 'ancien régime o a una loro evoluzione: aggregati sociali coesi, dotati di consapevolezza e di spirito di corpo, intrinsecamente diseguali, con diritti, averi, cultura nettamente distinti e contrapposti. In questo senso che disuguaglianze rimangano e che si possa dimostrare il permanere nelle stesse funzioni, almeno il tendenziale permanere, attraverso le generazioni e per gruppi parentali, non nega l'assunto. All'autore basta la mancata polarizzazione tra proletariato e borghesia per parlare di inesistenza delle classi. Altri invece hanno parlato di classe agiata, di leisure e craftmanship, oppure di classi compresenti legate alla coesistenza di più sistemi produttivi nella stessa società (Gallino), oppure hanno usato le classi sociali come classificazioni, non necessariamente discontinue, ma talora dotate di identità culturale (come si dice ceto medio e piccola borghesia e jet set) di abitudini comuni, di tendenza ai matrimoni interni ecc. Non è questo il caso di Sylos Labini. Detto diversamente, si può affermare (come ha sostenuto Gallino in una recensione sulla "Stampa") che coloro che studiano le classi sociali si dividono in quelli che pensano che la disuguaglianza fosse dovuta alle differenze giuridica e istituzionale tra gli stati nell' ancien régime e che perciò si scandalizzano del perdurare della disuguaglianza nelle società contemporanee, e in quelli che pensano che non necessariamente le società non di "stato", senza ruoli ascrittivi, ereditari e attribuiti per cooptazione, siano società di uguali e che perciò non si meravigliano dell'esistenza della disuguaglianza né la ritengono patologica ma si limitano a studiarne la variazione. A questa seconda schiera appartiene Sylos Labini, il quale in particolare sostiene che la disuguaglianza è tendenzialmente e secolarmente in diminuzione più o meno dappertutto, che c'è minore polarizzazione, che c'è convergenza al centro e spopolamento alle estreme, che modificando qualcosa qui e qualcosa là questa positiva tendenza (positiva anche per l'autore, che ritiene solo negativa e irrealizzabile l'uniformità) può essere rafforzata e consolidata. Insomma la faccenda della sparizione delle classi e della tendenza all'uguaglianza si ridurrebbero la prima a un problema terminologico e di metodo la seconda a una verifica empirica delle statistiche dell'autore. Non resterebbe se non obiettare che alcune delle trattazioni dei grandi blocchi sono affrettate, anche perché non si limitano agli anni ottanta ma spesso attraversano secoli e rivoluzioni, che troppe differenze culturali, istituzionali, economiche vengono omologate con un'ottica da Fao vecchia maniera, che gli ultimi dati americani parlano di ripolarizzazione, che le esclusioni verso il BibliotecaGino Bianco basso hanno fatto parlare di società dei due terzi, ma insomma si tratterebbe di elementi relativamente minori, e riguardanti la qualità del libro, non la tesi. Oppure si potrebbe affrontare drasticamente il problema da un punto di vista strettamente economico e sostenere una versione della teoria marxiana delle classi con definizioni astratte e planetarie. Non che manchi lo spazio, con la concentrazione e l'integrazione mondiale del capitale finanziario, di fare utili ragionamenti in questo campo. Ma non riguardano il libro. L'autore assume come proprio metro, come espliciti riferimenti, due grandi pensatori politici e non solo politici: Smith e Tocqueville, in particolare quest'ultimo. Il problema che assume come centrale è quello della uguaglianza nella libertà, è il problema della libertà giusta, per usare la definizione di Tocqueville, è il problema della democrazia. Rispetto a questi autori e su questo problema bisogna recensirlo. Circa 130 anni fa Tocqueville scriveva: "Per paradossale che possa sembrare questa affermazione tra le rovine che ci circondano, devo dire solennemente che ciò che temo di più per il futuro non sono le rivoluzioni. Se i cittadini continuano a chiudersi sempre di più nel circolo dei loro piccoli interessi domestici, c'è da temere che finiscano per diventare insensibili a quelle grandi emozioni che turbano le nazioni, ma che anche le sviluppano e rinnovano. Quando vedo la proprietà diventare così mobile e l'amore per il possesso così inquieto ed ardente non posso fare a meno di temere che gli uomini possano giungere al punto da considerare ogni nuova teoria un pericolo, ogni innovazione un fastidioso turbamento, ogni programma sociale un primo passo verso una rivoluzione, e che perciò non si muovano per paura di essere travolti, e tremo, lo confesso, al pensiero che essi si lascino, un giorno, così bene dominare da un vile amore delle gioie presenti da dimenticare il loro avvenire e quello dei loro discendenti, che preferiscano seguire stancamente il corso del destino piuttosto che fare, in caso di necessità, uno sforzo improvviso ed energico per raddrizzarlo". E uno dei due grandi pericoli che egli vede all'orizzonte della democrazia, cioè delle società prive di ruoli assegnati, delle società democratiche. L'altro, e più noto, è quello della dittatura esplicita di un tiranno che, in mancanza dei controlli esercitabili dai corpi intermedi, dalle professioni, dalle istituzioni, dalle organizzazioni, assuma tutto il potere in nome di una ideologia totalitaria e renda tutti uguali e servi. Tocqueville teme il riprodursi della disuguaglianza e del dominio, e la fine insieme della uguaglianza e della libertà. Uguaglianza e libertà non sono per lui, come sono invece per molti liberali italiani, anche degnissimi, due quantità mutuamente escludentesi, due principi antagonisti tra cui si giochi un gioco a somma zero. Sono invece due principi che possono esistere solo insieme, a meno appunto,che non si verifichi una delle due divergenti catastrofi, quella totalitaria che porta agli uguali schiavi, con un solo diverso che è il padrone (ma sappiamo che può essere un moderno principe collettivo) e quella huxleyana dei liberi che perdono la libertà per condizionamento e si lasciano dominare da un meccanismo impersonale, che li rende in effetti tutti ugualmente schiavi, nel movimento apparente e nella stasi reale: "Tutti sembrano credere che le nuove società muteranno fisionomia ogni giorno; quanto a me, ho paura che esse finiranno con l'essere troppo immutabilmente fisse nelle medesime istituzioni, nei medesimi pregiudizi, nelle medesime consuetudini, sì che il genere umano si fermerà e limiterà, lo spirito si ravvolgerà eternamente su se stesso senza produrre idee nuove, l'uomo si esaurirà in piccoli movimenti sterili e solitari e l'umanità, pur muovendosi incessantemente, non farà alcun progresso". Aveva anche qualche timore che qualche disuguaglianza

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