Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

DISCUSSIONE PERSONAGGICOMEMAO Edoarda Masi La nostra epoca, a lungo, è stata definita "di transizione al socialismo". Poi, quasi d'un tratto, tutto è finito. Senza che ne siano state rese esplicite le motivazioni: perciò senza coraggio né speranza. Inesistente il futuro e cessata ogni prospettiva, si accetta il dato, si vive alla giornata. Chiusi nel pragmatismo delle piccole porzioni, siamo schiavi dell'ideologia che ci esorta a evitare le visioni generali e impone di attenersi alle questioni singole e specifiche, lasciando ad altri (a chi?) le scelte dei valori, degli indirizzi, della concezione del mondo, delle finalità insomma che muovono e collegano le singole e specifiche questioni. Ignorare le scelte generali come se non esistessero equivale a considerarle assolute, con assoluto dogmatismo. In tal modo si è indotti all'obbedienza (non più a Dio, semplicemente ai più forti), a restare ciascuno nella propria casella per risolvere i problemi specifici che ad ogni settore o categoria vengono assegnati, ignorandone per definizione i risultati complessivi - intrappolati in una sorta di taylorismo della cultura. Personaggi come Mao Zedong disturbano questo procedimento. È indispensabile dimenticarli, oppure convogliare su di essi disprezzo e riso. O anche, esorcizzarli facendone santini imbalsamati, come oggi in Cina: dove si venera latavoletta del Santo Avo, eroe della Lunga Marcia, liberatore della Patria dagli aggressori e modernizzatore del sapere confuciano in linguaggio semimarxista. Cui vanno perdonate, per tali meriti, le follie senili. Anche i meriti sono intesi in versione edulcorata, senza troppa insistenza su chi fosse il nemico al tempo della lunga marcia, né sulla barbarie degli aggressori; mentre confucianesimo e marxismo, confusi insieme, sono ridotti a massime moraleggianti per l'edificazione del popolo. Un poco di blando oppio per le masse, cinesi e straniere, l'altarino con l'immagine della madonna, o col ritratto di Garibaldi. L'economia, la politica vengono trattate in altro luogo, sono riservate in altra sede a chi possiede scienza e competenza - cultura moderna, occidentale e urbana. I giudizi dei sapienti occidentali differiscono da quelli dei cinesi, letterati e manager, eppure confluiscono con essi in singolare accordo. Professori di filosofia convertiti da un marxismo positivista al positivismo tout court - gli stessi che esigono verità scientificamente dimostrabili e a tale fine esaltano la specificità delle competenze - come nulla fosse si permettono di giudicare secondo criteri intrinseci ai modi della civiltà europea un singolo prodotto di un'altra civiltà, di cui evidentemente conoscono ben poco, per non dire nulla. Vanno così cercando negli scritti di Mao, per esempio, il rigore della terminologia, estraneo allo spirito e alle forme non dico di una tradizione di pensiero, ma della lingua stessa in cui il pensiero si manifesta. Di fronte a tale obiezione, suppongo BibliotecaGino Bianco siano pronti ad estendere l'atteggiamento di sufficienza all'intera grande cultura di un grande popolo, solo perché non risponde ai precetti formulati da una diversa cultura, nel suo momento finale. Altri fanno tutt'uno di Mao Zedong e di Stalin. Questo rientra in un disegno più largo, dove i compiti sono divisi fra settori diversi del!' opinione: I) equiparare Stalin e Hitler, e lo stalinismo al nazismo; 2) far rientrare nella nozione di stalinismo ogni esperienza socialista, ogni aspetto di ogni esperienza socialista, e infine ogni teoria e ogni movimento di ispirazione socialista. Col risultato di bloccare l'approfondimento della critica, inclusa quella agli aspetti stalinisti in alcune organizzazioni politiche oggi, indipendentemente dalla loro abdicazione a rappresentare gli interessi delle classi subalterne; e ad un tempo, di impedire la crescita di nuovi filoni di pensiero alternativo. Fino al punto di cancellare la nozione stessa di socialismo. Per quanto riguarda Mao Zedong,.vengono eliminati gli elementi nuovi apportati da lui e dalla rivoluzione cinese rispetto alle concezioni europee, onde impedire che del contributo suo e di quella rivoluzione ci si valga per la formazione di un pensiero (e di una pratica) socialista adeguato ai nostri tempi. La rivoluzione cinese, nei lunghi anni dalla morte di Sun Yat-sen al crollo del Guomindang nel 1949, viene rappresentata solo come una tappa nell'uscita di quel paese dal contesto agrario-"feudale" e nel percorso verso la "modernità"; mentre tutto quanto è accaduto dopo il 1949, e specialmente a partire dal 1958, sarebbe un unico grandioso disastro - per larga parte alimentato dalla follia megalomane del maggiore leader. Accade così che un paese immenso, di civiltà e cultura sconosciute ai più fuori dei suoi confini, nel corso di poche decine d'anni si presenti al mondo con due facce opposte, reciprocamente incompatibili, una negatrice dell'altra. La vecchia adesione al "marxismo" stalinista distotto in teoria della legittimazione, e la conseguente abitudine a far coincidere positività e assenza di conflitti e a tingere di roseoparadisiaco l'immagine del "socialismo in costruzione", si è felicemente evoluta nella rassegnazione di molta ex sinistra a subire il tranquillante condizionamento dei media. Oggi come allora, si evita di guardare nella tragedia sanguinosa che è una rivoluzione e si cerca rassicurazione e conforto, privi della speranza che fa capaci anche di assumere e nel contempo rifiutare la violenza, dopo essersi misurati con la sua necessità e la sua maledizione. Le interpretazioni e i giudizi politici e morali sono delegati ad altri, si accetta il rovesciamento con naturalezza e senza reazione critica. (Non si rendono conto neppure di quanto una simile passività sia esistenzialmente autodistruttiva). La Cina contemporanea ha veramente due facce. Più che in ogni altro luogo infatti la sostanza dei conflitti di classe vi è manifesta e scoperta. Quanto più li si vorrebbe occultare, tanto più si rivelano, nelle due facce inconciliabili e non conciliate della medesima realtà.

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