Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

gica rispetto a più pubblici, e non a uno solo? La perdita dell'identità è fattore dominante dovunque, ormai, e l'identità cui s'aggrappa il napoletano finisce per essere più convincente quando costruita al negativo (non siamo questo e non siamo quello), mentre lo è molto meno quando tenta il positivo. Diciamo, assai rozzamente, che se un'identità ancora esiste è tuttavia quella della "plebe", più campana che napoletana, benché vieppiù corrotta da modelli altri, soprattutto consumistici, e che nei suoi confronti si è andata ricreando una nuova pericolosa frattura: tra la piccola borghesia che ingloba anche l'intellighenzia e "il Partito della Classe Operaia" (che di crisi d'identità soffre enormente dovunque), e la "plebe" non solo urbana che si ripropone con una cultura neo "lazzarona", e insomma camorrista. Una diversità napoletana continua dunque a esistere, ma presa tra nuove e tragiche contraddizioni: l'identità napoletana è troppo forte e insieme troppo falsa, è sempre più "recita" e ricordo, mentre sta crescendo a gran passi, nella disgregazione che è poi di tutto il Sud e di tutto il Paese, una diversità culturale aspramente e violentemente aggressiva e ormai, più che culturale, etologica. INCONTRI LABIBBIA VESTITADI NUOVO Incontro con Amos Gitai a cura di Gianni Volpi Amos Gitai, 36 anni, israelianodi Haifa che ha vissuto a Berkeley e in Francia, era noto come un notevole documentarista. Nel/'82 sorprese con Journal de campagne, così dentro alla realtà e alle logiche dell'occupazione della Cisgiordania da farsi prof etico dell'invasione del Libano verificatasi pochi mesi dopo. Vi si combinavano senso della realtà e senso del cinema, unificati da una cinepresa che era una presenza attiva e mai nascosta difronte a/l'arroganza ma pure ai "valori" più o meno deformi di soldati e coloni ebrei, come difronte alle ragioni di tradizione e economiche della popolazione araba. Esther sceglie invece di lavorare sui miti della coscienza collettiva, tra Pasolini e Paradjanov, forse sottovalutando le implicazioni "regressive" del primo e senza la visionarietà del secondo. · Ma possiede un 'autenticità che fa dimenticare il sistematismo della forma scelta (una storia biblica in ambienti attuali; lunghi piani-sequenza), mette in campo una ricchezzadi referentipittorici e liturgici che articola l'urgenza del discorso e lo dialettizza, come nella scena, commistione di storia e contemporaneità, dell'esecuzione di Aman di una violenza e isteria rochane, o come nel finale in cui gli attori, ebrei e palestinesi, ancora con gli abiti BibliotecaGino Bianco Amos Gitai (foto di Fulvia Farassino). biblici, raccontano le loro storie, anzi leportano scritte sulle loro facce. La scelta di una storia biblica per il tuo film Esther, seguita alla lettera nelle sue parole, può apparentemente esseresorprendente per chi ti conosceva come un cineasta attivo nella più bruciante contemporaneità. Prima di Esther ho fatto una serie di documentari sul rapporto tra palestinesi e israeliani. Ma il materiale di cronaca non era sufficiente per una fiction, né volevo cadere nella trappola del mel6, magari con una storia d'amore tra un soldato israeliano e una giovane palestinese. Poiché in Medio Oriente c'è quasi un'ossessione per i vecchi testi sacri e tutti fanno riferimento a·essi per sostenere le loro tesi, mi è parso importante riallacciarmi alla mitologia antica e lavorare sul materiale da essa offerto. In particolare la storia biblica di Esther è splendida sia per il minimalismo del racconto, la semplicità della trama, sia perché è la sola storia biblica in cui non ci sono presenze soprannaturali, ma personaggi umani e variati nella loro personalità, a.Ile prese con le contraddizioni della situazione in cui vengono a trovarsi. Per ogni cultura è importante andare alle proprie fonti, riappropriarsene e non lasciarle esclusivamente a interpretazioni reazionarie o religiose. Di contro ai registi che rifiutano la Bibbia e intendono occuparsi soltanto di temi e problemi contemporanei, ritengo che abbia un'attualità affrontare la mitologia come parte importante di una civiltà. La storia di Esther, poi, ha un sensopolitico attuale. Due miti ebraici ben distinti mi hanno sempre inquietato. Uno è il mito del suicidio, legato all'episodio di Masada: un gruppo di 760 ebrei che preferiscono il suicidio collettivo alla schiavitù sotto i Romani. L'altro, opposto, è quello di Esther: la lotta per la sopravvivenza e il sogno di vendetta di un popolo perseguitato. E alla fine della storia di Esther, nella Bibbia, questa cruenta vendetta prende proporzioni che vanno al di là della sola necessità di sopravvivenza. È un mito molto forte nella memoria ebraica. li Purim, la festa che lo commemora, ha continuato a esistere attraverso i secoli, nonostante fosse proibito in molti paesi. Ma lo scioglimento cruento è totalmente scompar- s: so nella memoria collettiva, nella quale non resta che la storia di un popolo perseguitato che riesce a sopravvivere e a vincere i suoi persecutori. Quella di Esther e del popolo ebraico è una storia circolare, prima oppressi, poi persecutori, come una spirale ossessiva che regola i rapporti tra ebrei e palestinesi, come cerchio da cui non si esce mai, anche sul piano culturale. Questa visione che proponi come contraddizione aperta e essenziale non conosce nessuna incrinatura? La natura circolare della repressione era presente già nella Bibbia. Da essa spero che ci sia una via d'uscita, ma c'è il grave rischio che resti una situazione circolare. La storia degli ebrei e le numerose persecuzioni avrebbero dovuto essere di insegnamento su come comportarsi, ma le nazioni hanno poca memoria e in un diverso contesto tendono a rifare le cose fatte a loro. Si tratta di com-· piere delle scelte: se continuare a essere degli occupanti oppure no. In quanto "occupanti" non importa se si ha una formazione umanistica, se si ha un passato di vittime, importa solo il modo in cui ci si comporta, cioè da occupanti. In apparenza, per la sua ambientazione moderna di un testo antico, classico, il tuo film fa pensare a Straub; ma credo che il riferimento più forte, per il lavoro sulla musica e sulla pittura, credo sia quello a Paradjanov. Penso tu abbia ragione. Prima di tutto, c'è un forte impasto linguistico. Tutti parlano ebraico, ma con precise inflessioni dialettali, chi ungheresi, chi egiziane, chi arabe; non volevo una lingua neutra, sintetica. È un film di memorie, di ricordi, di come esse si fondono, si calano nella mitologia, la arricchiscono delle proprie esperienze, culture, retaggi. Inoltre, a dare corpo all'aspetto rituale, certe frasi del dialogo di Esther, di un ebreo yemenita, di una donna palestinese, non sono dette, ma cantate sulla base di antichi motivi liturgici. A essi si aggiunge la musica strumentale, in cui si fa sentire la presenza di un sitar indiano e di un flauto giapponese zen. Infine, c'è il tipico rumore della città di oggi, i suoni urbani di aerei, auto, sirene. li suono rappresenta come un costante richiamo a un'altra epoca. Formalmente il racconto è mantenuto in un ambito classico, arcaico, ma in certi momenti il suono spezza questo registro, introduce un elemento di ambiguità tra la favola in sé e il contesto contemporaneo. Questa specie di orchestra di voci, di suoni musicali, di rumori, viene ricomposta alla fine, nell'ultima scena, questi segnali risalgono alla superficie dell'immagine quando gli attori raccontano la propria biografia, le proprie esperienze. Assieme a certi elementi visivi, le rovine, i copertoni che bruciano, ecc., sono come segnali disseminati lungo la narrazione, dapprima quasi inavvertibili, quasi casuali, ma che si accumulano, sinché il finale ci riporta al presente, e allora assumono un senso preciso.

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