52 SAUDADENAPOLETANA Goffredo Fofi Ho vissuto a Napoli a lungo, ed era ovvio che su Napoli ragionassi da "straniero", dentro-e- fuori una realtà compresa peraltro a più livelli, come a Napoli è d'obbligo soprattutto per chi napoletano non è. E spesso sono stato più infastidito che affascinato dalle manifestazioni di auto-esaltazione frequenti in quella società, e dalle molte tentazioni, cui i napoletani non amano certo sottrarsi, di spiegare a se stessi e agli altri le loro peculiarità vere o presunte. Soprattutto dai tentativi ricorrenti di definire la "napoletanità". Il libro di Raffaele La-Capria L'armonia perduta (Mondadori, pp. 186, L. 18.000) mi ha riconciliato con quei discorsi, me li ha chiariti, me ne ha mostrato la natura e l'interesse come pochi altri (anche se, come tutti coloro che hanno cercato di capire Napoli, un debito di riconoscenza per la storia einaudiana del Ghirelli è certo innegabile). Ma questo libro curioso, di ungenere che in Italia ha cultori solo tra i giornalisti peggiori, e nelle pieghe recondite delle provincie, è intrigante anche per altri aspetti, di cui il secondo è quello di spiegarci l'iter culturale di La Capria, uno scrittore che ha dato alle patrie lettere almeno un romanzo tra i migliori del dopoguerra, Ferito a morte, che consiglio a chi non lo conosce di leggere nell'edizione di Einaudi che lo raccoglie assieme agli altri due, Un giorno d'impazienza e Amore e psiche, e a una parte, la più autobiografica, del saggistico False partenze (Tre romanzi di una giornata, Einaudi 982, pp. 301, L. 18.000). Tema dominante della narrativa di La Capria è quello della "bella giornata", della nostalgia per la vita vissuta come piena naturalezza, dispiegata nell' "indifferenza serena e primitiva per tutto e per se stesso". La sua perdita provoca quella malinconia, quello spleen (napoletanamente, quella "pocundria") da cui il resto della vita è segnato. Ma la perdita - la lacerazione che provoca o da cui è provocata - non sono solo individuali, riguardano in qualche modo la cultura stessa napoletana, il senso ossessivo di una "armonia perduta". Questo libro ultimo di La Capria, eterno ritorno sul suo eterno tema, è così insieme, e non poteva non essere, socio-antropo°Jogico e squisitamente letterario, perfino "romanzesco". L'autore stesso ce lo dice e ci insiste, a p. 126: "Un romanzo anche quando è preso dalla realtà non la riproduce mai esattamente, è un 'modello di realtà', una 'realtà possibile', una ipotesi che l'immaginazione cerca di rendere più vera e credibile del vero, anche per far risaltare (del vero) alcuni aspetti che altrimenti sfuggirebbero. Qualcosa di simile ho tentato di fare con questo libro onde acquisire una scienza nuova della 'napoletanità'. e riconoscerla.'' BibliotecaGino Bianco L'oscillazione tra il saggio di antropologia culturale e l'autobiografia, condotta sul tono lieve e non dogmatico di un seguito di variazioni su leit-motiv fisso, i ritorni anche, e le ripetizioni, l'intreccio della citazione e della storia con l'osservazione che superi il quotidiano pur di esso parlando, rendono questo libro un esercizio stilistico assai pregevole, di rara eleganza perché di rara sensibilità - e anche una variante più colta, più "saggia", di quel "manierismo napoletano" di cui l'autore individua le origini nella coscienza della perdita dell'Armonia e dell'impossibilità di ricrearla. "Quando si perde la grazia spontanea dell'esistenza (l'Armonia), si tende a conservarla artificialmente, in modi impropri e illusori, a limitarne per nostalgia o altro la forma esteriore, senza veramente possederla. E questo accadde ai napoletani. Quando si accorsero che quell'Armonia gli era comunque necessaria per sopravvivere, necessaria come l'aria che respiravano, i napoletani si misero a 'fare i napoletani" (p. 22). E nacque la "Recita Collettiva', il mito e l'incerta coesione della "napoletanità". La tesi di La Capria è radicata nella conoscenza della storia di Napoli, in quella scissione che il Settecento visse tra l'illuminismo colto e la plebe, con la tragica rottura del fallimento della Rivoluzione, e col successivo e per gran parte inconscio tentativo di una piccola borghesia colta di rimediare unificando: avvicinando e conquistando la plebe, in un intrico di sentimenti e atteggiamenti che divenissero comuni, coi due mezzi eminentemente culturali, del dialetto e della canzone. Sono stati questi glielementi aggreganti, e attorno a loro è sorta quell'idea di napoletanità, quel manierismo napoletano, che trova bensì nella loro sovrastrutturalità la sua radicale insufficienza, e quindi la sua malinconia. È davvero mai esistita, salvo che biologicamente e adolescenzialmente, l'Armonia? E, di piu, un'armonia napoletana? Non importa, è la sensazione di una mancanza e di un vuoto che ne produce la malinconia, anche l'idealizzazione. Fo10 di C/aude Nari, da Città sul mare con porto, Elecla 1982. Abbondano in questo agile libro le osservazioni sulle quali si avrebbe voglia di discutere e intervenire, troppe per lo spazio di una recensione. Per esempio il bel capitolo sulla Ortese - così critica dell'intelligenza napoletana nel Mare non bagna Napoli, ma anche così vicina all'idea dell'Armonia perduta e della stessa "Bella giornata" - o le osservazioni che riguardano certi autori più lontani (Di Giacomo e Russo) o vicini (Eduardo), o certi "dilemmi" storici rievocati con tanto di materiali in certi libri noti solo, purtroppo, a "noi napoletani", di Mimmo Scafoglio. O ancora la nota illuminante e precisa nella sua concisione che alle pagg. 183-184 confronta l'omologazione di segno piccoloborghese avvenuta storicamente a Napoli con la "robusta barbarie" di segno tragico che ha distinto e continua a distinguere i siciliani - sulla quale anche occorrerebbe dire e scavare. li lettore finisce per oscillare anche lui - credo anche il lettore napoletano - tra l'adesione alla ricostruzione e spiegazione e una certa sotterranea diffidenza, di cui partecipa lo stesso La Capria, attento ad avvertire che la "napoletanità" scivola spesso nella "napoletaneria", che si sovrappone distorcendola alla nostalgia di dopo la ferita con l'esibizionismo ruffiano della recita che tira l'applauso. L'Armonia sta prima o ai margini della storia, e provvisori, incerti sono i tentativi di ricostituirla, compreso quello operato dal dialetto e dalla canzone. È sempre destinata a infrangersi, ogni epoca rischia di attribuirla alla precedente. Certo oggi essa non c'è, sopravvive solo la recita, nei suoi aspetti più discutibili. C'è stata anche a Napoli l'omologazione che ha reso culturalmente meno lontani i napoletani dagli altri italiani, e ha prodotto - è il suo altro aspetto, pressoché dovunque - insieme quella frammentazione e disgregazione ulteriori delle esperienze per cui non c'è più un dialetto, ci sono dei gerghi, non più una canzone, ma delle canzoni. Cosa tiene più insieme, mettiamo, Sergio Bruni e Pino Daniele, Mario Merola e Roberto De Simone? quante "napoletanità" o "napoletanerie", oggi! e come distinguerle, se non con criteri di rappresentatività e attendibilità sociolo-
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==