Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

distratta dagli atti terroristici di gruppi sviati, pende su di noi la spada di Damocle di un potenziale distruttivo terroristico riguardo al quale gli Stati non hanno ricevuto né permesso né mandato da alcun diritto divino e quindi neppure da alcun diritto umano. Noi protestiamo contro il totalitarismo esistente in altre parti del mondo, eppure già viviamo sotto la costrizione totalitaria degli armamenti mortali. Di fatto noi approviamo l'empia produzione del plutonio velenoso, che siamo noi a scoprire e che non esiste in natura - una produzione annua che supera i 40.000 chilogrammi -, e lo innestiamo nella storia della terra per centinaia di millenni; la approviamo usando l'energia nucleare, ed è con quest'uso che i detentori del potere giustificano questo veleno. Siamo coinvoLi nella partecipazione e impotenti a resistere, al punto che anche coloro che vedono chiaro, riescono a continuare a vivere soltanto rimuovendo ripetutamente ciò che vedono. Presi dalle nostre preoccupazioni, dalle nostre gioie e dalle nostre occupazioni quotidiane, consideriamo il mondo come se fosse ancora quello che è sempre stato; eppure esso è proprio sull'orlo dell'abisso. Rassomigliamo tutti a quella padrona di casa pompeiana, in una vignetta dell'umorista italiano G. Novello, la quale la mattina prima dell'eruzione del Vesuvio fa spolverare a fondo tutti i suoi ninnoli dalle sue serve. Anche le chiese, che pure nella loro Bibbia hanno l' Apocalisse, e che tacciono su tutto questo o trovano soltanto parole fiacche, non impegnative, rassomigliano nelle loro faccende ecclesiastiche quotidiane a quella padrona di casa, e le rassomigliano pure i teologi persi nelle loro futilità specialistiche. Tutto questo è vissuto assai al di sotto del livello di gravità dell'ora presente, è senza alcun rapporto con l'impegno che esige da noi la prospettiva apocalittica della fine dell'umanità. Anche nel mio libro si avverte poco o nulla quanto tale realtà mi fosse presente, ad esempio quando parlavo della «vita di morte» o dell'autodistruttività del peccato che resiste all'iniziativa salvifica di Dio. Almeno a questo punto va chiarito che tutto ciò che abbiamo detto dell'Evangelo è messo seriamente in questione dalla situazione attuale dell'umanità, e che appunto nell'atto di questa messa in questione si leva la promessa evangelica che intende rimetterci in piedi e metterci all'opera a favore dell'umanità minacciata da se stessa. Lo squilibrio fra l'apparente importanza di questa promessa e la potenza gigantesca delle forze distruttive, è lo stesso squilibrio in cui si è trovato il Cristo croci fisso rispetto al potere di coloro che lo hanno crocifisso: per il loro gioco politico egli non era che un'insignificante pedina della scacchiera. È ancora lo stesso squilibrio nel quale si sono trovati, in ogni epoca, coloro che avevano ascoltato l'Evangelo, di fronte all'assassinio e alla violenza da cui erano attorniati e che non erano in grado d'impedire. Alla fine del cap. IV contrapponevamo il messaggio della risurrezione al «pessimismo della fine, che la situazione attuale del mondo ci rende così naturale»: non certo per minimizzare questo pessimismo della fine o per contestarne la fondatezza. È la visione realistica delle cose. Ma appunto perBibliotecaGino Bianco ciò non è più possibile cavarcela a prezzo minore del messaggio della risurrezione, contro la disperazione pienamente motivata da tutte le analisi realistichedi quest'ora storica, e contro la paralisi che ne deriva. Non per consolarci della fine incombente con la vita eterna in un aldilà che non può venirci a mancare, abbandonando questo mondo al suo destino: sarebbe una consolazione egoistica, trascurando inoltre il fatto che ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilità, di colpa in questo destino. È una consolazione legittima soltanto se ci aiuta a vincere quella paralisi e ci spinge a una lotta rinnovata per la salvezza storica di questo mondo, che è il creato amato da Dio: è una consolazione legittima se la pietà per coloro che sono quotidianamente vittime delle forze distruttive, ci spinge a metterci dalla parte delle vittime e a scindere le responsabilità e rifiutare la complicità con le forze distruttive. In questa sede non si possono dare ricette su come ciascuno di noi, all'interno di questa corresponsabilità, può levarsi contro questa corresponsabilità e, abbandonando la solidarietà mantenuta finora con i fautori della fine, può impegnarsi attivamente nella solidarietà con le vittime e quindi anche con la grande madre, la madre terra, della quale viviamo. Le vie vanno cercate nella prassi quotidiana, nel dialogo fra i discepoli di Gesù e i contemporanei che hanno occhi per vedere; e ogni attimo di tempo che ancora ci è lasciato, è un momento di respiro, un rinvio prezioso che dobbiamo utilizzare con tutte le nostre forze. Ciò che ho esposto in questo libro non è che un tentativo di descrivere l'equipaggiamento che l'Evangelo ci fornisce per la prassi in cui impegnarci, in questo rinvio, in questo momento di respiro: la motivazione, i criteri, il patto di Dio, la forza di resistenza, la linea direttiva, e la speranza, là dove pare che non vi sia più nulla da sperare. Perciò la domanda relativa a ciò che ci aspetta è tutta avvolta dalla domanda relativa a chi ci aspetta: il Dio della risurrezione, il quale portando la vita a noi sempre invasati di morte, continua a domandarci: «Perché volete morire?» (Ezechiele 33, 11; 18,31; Geremia 27, 13). Colui che aspettiamo, quando giungerà a termine il nostro tempo attuale, ci aspetta qui, in questo tempo, fino all'ultimo istante. E ora concludo, quindi, con l'episodio signficativo citato anche da Gustav Heinemann quando nel 1974 ha concluso il suo mandato presidenziale. Alla metà del secolo scorso, in uno Stato del Middle West nord- americano, era riunito in sessione il Parlamento di quello stato. Un tornado spaventoso, come ne capitano in quella regione, si avvicinò e oscurò il cielo. Si fece buio come di notte e pareva venuta la fine del mondo. I parlamentari terrorizzati volevano interrompere la sessione e precipitarsi fuori dall'aula. Lo speaker del Parlamento li richiamò: «Signori miei! Ovvero il mondo non finisce ancora e il nostro Signore non giunge ancora, e allora non c'è alcuna ragione d'interrompere la sessione; ovvero il nostro Signore giunge ora, e allora deve trovarci al lavoro. La seduta continua!» (Dal volume Liberazione e solidarietà, pubblicato dalla casa editrice Claudiana, I986). DAPERUGIA s Per il XVIII anniversario della morte di Aldo Capitini, animatore e teorico della nonviolenza in Italia, e in occasione della visita del Papa a Perugia e ad Assisi, gli amici di Capitini hanno fatto affiggere un manifesto con questo brano dal volume Religione aperta. La monarchizzazione di Gesù Chi non è contento che Gesù Cristo sia nato e stato nel mondo? Egli è il compagno ideale in questo mondo che dà colpi; e quando è sera, quando tutti vanno per altre cose, quando si sente che tutta la propria vita passata non basta, Gesù Cristo, la sua energia, la sua chiarezza, la sua virile bontà, quella serietà piena di rettitudine e di sofferenza tra le ombre del mondo, è un sicuro conforto. Gli facciamo posto accanto. Non perché egli abbia avuto una nascita speciale con angeli, e una vita con atti miracolosi e trasfigurazioni, e cose che egli abbia fatto dopo la morte; non perché gli abbiano attribuito qualche cosa di ultrapotente, di regale e ultraregale, al modo dei potenti della terra o di un ultrapotente che regoli i moti delle tempeste e delle nuvole; anzi quella cornice dà un disagio, quasi sia un argomento per selvaggi, una consolazione verso le persone emotive, mostrando che il Bene è potente. Non si poteva fare diversamente? uno potrebbe domandare. Ebbene sì, c'erano due modi per Gesù Cristo: si è insistito sul primo; noi insisteremo sul secondo. Lo si è fatto Figlio di Dio in senso eminente, persona pari al Padre, dotato di assoluta sapienza e di infinita potenza, monarca che torna al cielo perché ne proveniva, autorità fondata nel mistero (il suo legame col Padre) e fonte dell'autorità a chi nasce principe e re. L'altro modo è rimasto in secondo piano. Quel senso di camminare e di andare verso una nuova realtà, che c'è particolarmente nei primi tre vangeli (i più antichi); il fatto di volgere un appello a tutti per una salvezza collettiva, aprendo i cuori chiusi, i pugni chiusi, gli occhi serrati, le membra rattratte; e quel sentire che il peccato più grave non è contro le vecchieprescrizioni o gli antichi comandamenti (che è cosa che ben s'intende, quasi un'igiene personale, ma di cui Gesù si secca quando gli se ne parla con insistenza), ma quello di inadeguatezza di apertura al miglior futuro, che è la venuta di Dio, con il suo regno, la sua realtà che è la realtà liberata; e chi aveva pietà ed apertura (come il Samaritano) non temeva il Giudizio, vi era preparato, lo viveva già come Bene; quel richiamo a non sfuggire da ciò che importa sommamente, dandosi al culto, al tempio, al rispetto pedante del sabato; e soprattutto quel1'impulso a fare verso gli altri senza badare al loro singolo merito, il fare aperto che sta prima del giudicare e ne fa a meno; questa idea del fare aperto è il sommo, e sta tanto a cuore a Gesù Cristo che egli dice: ciò che farete agli altri, e particolarmente ai sofferenti, ai bambini, è come se lo faceste a me; che è il principio più dimenticato da tanti cristiani. I quali hanno preferito svolgere il primo modo, ed innalzare Gesù già nei Vangeli stessi, chiuderlo nella nicchia dell'adorazione, allontanarlo nell'apoteosi dell'Ascensione, invece di cercarlo risorto nel volto di ogni essere incontrato.

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