INCONTRI EVOLUZIONISULGHIACCIO Incontro con Marco Bacci a cura di Pino Corrias Marco Bacci, 32 anni, milanese, ex impiegato di banca, ex critico cinematografico, un viso regolare come il suo paio d'occhiali, ha esordito nella narrativa con il romanzo// pattinatore (Mondadori, pp. 211, L. 19.000). Il giovane protagonista si chiama Tristano e abita le pagine di questa storia con noncurante leggerezza, nonostante che ad accoglierlo sia il poco ospitale mondo dell'inizio secolo con il grande massacro della prima guerra mondiale alle porte. Tristano ha gli occhi di due diversi colori, pattina sul ghiaccio e studia pianoforte. Nei pattini e nella musica trova una medesima armonia. Tristano cresce e studia. Suona il pianoforte nei primi cinematografi, si sposa ed è abbandonato. Viene arruolato, e finisce nelle trincee del Trentino. Diserta: trova finalmente un mondo abitabile tra le montagne risparmiate dalla guerra, in una piccola casa dove vive una famiglia con figlia giovane e bella, che egli finirà per sposare in un pacato lieto fine. "E curioso che tutti i critici si siano stupiti di questo lieto fine", dice Marco Bacci. "Non capisco. Pensavo fosse evidente che c'è molta ironia nel mio modo di utilizzare la struttura del feuilleton. Un feuilleton raccontato attraverso una scrittura volutamente antipsicologica, sintetica, essenziale." Per anni tu hai fatto il critico cinematografico sulle pagine milanesi di Repubblica, .ora a Canale 5 ti occupi della scelta e della programmazione dei film. Che rapporto hai con il cinema? Di cinefilo appassionato e di inguaribile curioso. Lavorando per "Repubblica" dovevo ogni giorno condensare in 22 righe la storia di un film e il mio giudizio. Questo ha influenzato moltissimo il mio stile che si è fatto sempre più sintetico e asciutto. Oggi, visionando per Canale 5, Retequattro e Italia 1, decine e decine di film, immagazzino una serie inesauribile di trame: strutture forti, possibili varianti, colpi di scena, soluzioni e scioglimenti. Seleziono i pregi e i difetti di questi meccanismi. Credo che sia un lavoro straordinario per uno come me che vuole scrivere. Hai dei modelli nella tua scrittura? Certo. Ho amato moltissimo Ragtime di Doctorow, la sua scrittura apparentemente distratta, John Irvin e tutti gli straordinari romanzi di Kurt Vonnegut, la sua capacità di accumulare elementi eterogenei e farli implodere in una storia. BibliotecaGino Bianco Veniamo alla trama del Pattinatore. Perché hai scelto di ambientare la tua storia a cavallo della prima guerra mondiale? La Grande Guerra è un evento che mi ha affascinato. Tutto è cominciato un'estate di tre anni fa. Ero in vacanza in Trentino, sulle Dolomiti, e un giorno ho visto le trincee che sono ancora incise nel terreno. Mi sono chiesto, guardandole, cosa provavano quei ragazzi che hanno combattuto a stare l,ì dentro. Prima di allora la Grande Guerra per me si riduceva alle stampelle di Enrico Toti e a qualche altro aneddoto su Caporetto e il Piave. Nei paesi di quella zona ho scoperto tantissimi libri scritti dagli eruditi locali. Ho cominciato ad appassionarmi a quelle microstorie e quando sono tornato a Milano ho letto tutti i romanzi, tutti, che riguardavano quegli anni. Ho letto saggi e ricerche storiche. Poi ho trovato la raccolta delle copertine di Beltrame della "Domenica del Corriere" e sono andato avanti per mesi accumulando appunti. Quindi hai cominciato a scrivere? Sì. Ho ripreso il personaggio di un mio libro precedente che era stato rifiutato da alcune case editrici, Tristano, e ho cominciato da lì. Il pattinatore è nato in pochi mesi di lavoro intenso. A volte così coinvolgente da farmi perdere il senso del tempo. Ricordo che un giorno sono uscito di casa convinto che fosse inverno perché stavo raccontando di Tristano che pattina sul Naviglio ghiacciato. Sono uscito ed era un bellissimo pomeriggio di primavera. Ho pensato: aiuto, sto diventando matto. Come lavori? Cerco di scrivere tutti i giorni senza rilassamenti. La tensione è un filo che serve a tenere insieme le pagine. Se lo perdi rischi che tutti i fogli ti scappino via. All'inizio tendevo a scrivere tutte le scene che avevo in testa per chiudere il capitolo in giornata. Ma la mattina dopo mi sentivo talmente vuoto che rimanevo per ore a guardare il foglio bianco prima di riuscire a riattaccare. Questi tempi morti mi esaurivano privandomi della tensione necessaria. Un giorno ho letto un consiglio illuminante che Hemingway dava agli scrittori. Diceva: lasciate la macchina da scrivere un attimo prima di avere dato fondo a tutte le idee che avete in testa, Marco Bacci (foto di Alberto Roveri). smettete prima di sentirvi completamente 4S soddisfatti. Ha ragione. In questo modo la pausa si trasforma in attesa. Può durare una notte o un giorno, non importa. Quando torni a sederti è come se non ti fossi mai alzato. Perché scrivi? Perché con la scrittura posso lacerare la tela della realtà e ricostruirne una mia. Ricrearla attraverso personaggi ed eventi che muovo dentro ad una storia. È questo il lato affascinante della scrittura: ogni storia è la finzione di una realtà possibile. Alla ricerca di cosa? Della verità? Non so più se esiste una verità. Tristano di sicuro non la cerca. Il suo patrigno, professor Kutche, fisiologo, materialista, scettico, ci prova. Accumula elementi, un'infinità di elementi che dovrebbero concorrere a svelare una verità. Anzi: la verità che lui chiama "il Senso del Tempo". Alla fine scopre che ogni singolo elemento annotato non converge verso un punto comune, ma va per conto proprio. Scopre che non è possibile nessuna sintesi del reale. Borges in un suo racconto scrive che l'unica carta geografica attendibile è quella in scala uno a uno. Forse questa è davvero l'unica verità possibile. CINEMA PRIVATISSIMEOSSESSIONI Gianni Volpi Ossessioni e nostalgie sembrano caratterizzare ciò che resta del cinema italiano (in sostanza, la generazione di mezzo, cari autori internazionali e ex-"irregolari senza età", moderatamente politicizzati, bizzarri o anomali), l'ossessione come introversione soggettiva sino a limiti delle manie private, la nostalgia per ciò che non è più possibile fare, per poetiche e movimenti passati. Ossessioni d'autore com'è nella tradizione del nostro cinema, mai davvero interessato alla realtà se non attraverso la mediazione di forti radici autobiografiche in grado di farsi solo in sporadici casi parte dell'esperienza di tutti, mai capace di grandi esperienze intellettuali e invece abbarbicate a culture marginali e a sottocultura "moderne" che tuttavia hanno avuto in certi momenti peso e consistenza? Può darsi, ma oggi si tratta di piccoli autori, apprezzabili per i loro tentativi di sincerità, di rinuncia a miti e ideologie di buona conoscenza, ma di paurosa inconsistenza. Piu che produttive ossessioni, le loro appaiono perversioni d'autore, di scarsa necessità. Prendiamo il caso di Ferreri, cineasta principe di ossessioni, specie nei rapporti tra i sessi, ma a suo tempo inclusive di idee e situazioni più vaste: capace cioè di metafora e di utopia. I love you, abbandonate lesterili mitologie femministe e infantili, di pazzia e rifiuto della normalità, che hanno caratterizzato i suoi non troppo felici anni ottanta, appare in linea con un'immagina-
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