MUSICA JAZZ E ALTRO Marcello Lorrai Jazz: a cavallo tra due stagioni un rapido bilancio della situazione concertistica. Nemmeno ai tempi dell'effimero boom del jazz presso il pubblico giovanile alla metà degli anni settanta, si era mai registrato un affollamento di manifestazioni come quello raggiunto quest'estate, mentre anche l'autunno, complice forse il clima mediatico favorevole (Absolute Beginners, Round Midnight), mostra un'insolita effervescenza di iniziative a cui fa riscontro una notevole rispondenza di pubblico. A fronte della quantità dell'offerta la mancanza di fantasia nell'organizzazione delle proposte è generalizzata: non si riscontrano praticamente eccezioni alla formula standard del festival o del ciclo stanziale con concerti serali, e stop. Nessuna traccia di rassegne costruite intorno ad un tema definito; scomparse quelle modello full immersion con worshop, incontri estemporanei, seminari, tipo Pisa, che aveva preso esempio da Moers, tra la seconda metà degli anni settanta e i primi ottanta; estinto il decentramento. La memoria jazzistica dei festival funziona benissimo al passato remoto, molto meno bene al passato prossimo: dire che free e post-free americano ed europeo sono penalizzati dalla programmazione è esprimersi in modo decisamente eufemistico. Sintomatico il caso di Anthony Braxton, alfiere della scuola di Chicago, quasi inflazionato e di moda un po' di anni fa, e sempre artista di estremo interesse, passato quasi inosservato dal luglio jazzistico, ignorato o peggio trattato con ingenerosità totalmente ingiustificata da una critica che non l'ha mai digerito. Per essere al passo coi tempi si punta massicciamente sulla fusion. Più comodo da tutti i punti di vista che, per esempio, tastare il polso alla nuova generazione chicagoana, verificare la consistenza del giovane post-post-jazz britannico in buona parte di origine giamaicana, o controllare se l'improvvisazione europea è senza eredi o ha riprodotto in qualche misura una nuova leva interessata a continuare l'esperienza della musica radicale. "Spero che non mi si etichetti mai più 'jazz'! Vecchio cliché. Per quanto mi riguarda, io dico New Music" (Miles Davis, "Libération", 5 luglio 1985). Tra una tournée estiva che ha lungamente toccato l'Italia ed una autunnale che l'ha nuovamente toccata per una sola data (il 13 novembre a Bologna), ecco l'atteso nuovo album di Miles Davis, Tutu (Warner Bros). Album nuovo non solo, banalmente, per essere stato realizzato con un procedimento BibliotecaGino Bianco inedito per il trombettista (a parte alcuni contributi aggiuntivi praticamente con l'unico intervento di Marcus Miller, uomoorchestra elettronico), ma anche come poetica, sensibilmente differente da quella dei dischi degli anni scorsi (ma anche differente da quella stessa che sottende le esibizioni dal vivo, in cui Davis propone lo stesso materiale compreso nel nuovo album). Tutu diventa più avvincente a ogni nuovò ascolto, ed è più serio e profondo del precedente You 're Under Arresi. A un'altra occasione, magari, diverse considerazioni che varrebbe la pena di fare su e a partire da Tutu, e che è impossibile stringere in poche righe. Qui ci si accontenta di fare presente che per nessun altro album davisiano come per Tutu un punto di vista jazzistico è decisamente inadattto e fuorviante. E di notare che effettivamente Tutu è un album (usando per estrema chiarezza un termine brutale) molto commerciale, volendo il più commerciale nella discografia di Davis: ma anche non necessariamente un lavoro commerciale non può essere serio, è questione di individuare un'estetica adeguata. La validità di Tutu è anche nell'avanzarne un esempio convincente, in una direzione che non solo è possibile ma può essere addirittura una sfida encomiabile per chi fa musica oggi. "Sono stato bassista di jazz, e Miles ha sempre contato molto per me" (Sting, "Jazz Magazine" luglio-agosto I985). Nulla da togliere al pregio di Bring on the night (PlyGram), il doppio album dal vivo che Sting ha ricavato dai concerti europei della scorsa stagione. Solo, si soffre un po' a sentire talenti del livello di Brandford Marsalis e Darryl Jones sacrificati nel quadro della musica dell'ex bassista dei Police. Ha ragione Davis (con cui Marsalis e Jones hanno lavorato) quando dice: "Se guardo a quel gruppo, vedo dei grossi musicisti e uno che li ingabbia" ("New Musical Express", 20 settembre 1986). È vero che anche la musica di Davis non offre spazi di particolare libertà (lo si è visto anche a Bologna, dove Darryl Jones, dopo l'impegno con Sting, era di nuovo a fianco di Davis). Ma certo non si avverte la sensazione, che si prova molto forte assistendo alle esibizioni di Sting, che Mi/es Davis e Darryl Jones a Bologna, /(foto di Paola Bensì). l'agente di custodia finisca per essere a sua volta prigioniero dei detenuti che deve tenere sotto chiave. Sensazione che (è ovvio) non è restituita dalla selezione di Bring on the ·night, dove non si trovano i momenti (ed erano quelli i più affascinanti) in cui la nera "Blue Turtle" band sembrava sul punto di trascendere i limiti del mondo musicale del biondo Sting, e pareva evocare il bisogno del carisma di un nuovo Mingus o Hendrix (quello di Sting è sostanzialmente carisma solo nei confronti del pubblico) per elevarsi al rango di una black music contemporanea molto più importante. "Siamo ormai nel jazz fino al collo" (John Lurie, "li manifesto", 22 settembre 1983). Dall'iniziale operazione, lucida e provocatoria, sul jazz, con l'abbandono del gruppo da parte di Art Lindsay, al jazz tout court, pronunciato espressionisticamente. li secondo album senza Lindsay, live in Tokio. Big Heart (lsland) e l'ascolto dal vivo (" Jazz in Sardegna", Cagliari, luglio) dei Lounge Lizards confermano un'adesione intellettualistica e un'aspirazione ai mondi di Mingus e Aylers piuttosto velleitaria. IL RACCONTO I LEONI Moacyr Scliar Non oggi ma alcuni anni orsono, i leoni rappresentavano un pericolo. Migliaia, milioni di essi scorrazzavano per l'Africa, facendo tremare la foresta con i loro ruggiti. Si temeva perfino che invadessero l'Europa e l'America. Wright, Friedman, Mason e altri lanciarono allarmati appelli al riguardo. Fu perciò deciso di sterminare i temibili felini. E così fu fatto. La grande massa di essi, concentrata neipressi del lago Ciad, fu distrutta da un'unica bomba atomica di media portata, lanciata da un bombardiere, un giorno d'estate. Quando il caratteristico fungo si fu dissolto, dalle fotografie si constatò che il nucleo della massa leonina era semplicemente stato disintegrato. Per un raggio di circa due chilometri, brandelli di carne, frammenti di ossa e pelli insanguinate. Leoni agonizzanti giacevano nei paraggi. L'operazione venne classificata "soddisfacente" dalle autorità incaricate. Tuttavia, come sempre accade in simili imprese, i pro: blemi restanti e le inevitabili conseguenze divennero a loro volta fonte di preoccupazione. Era il caso dei leoni radioattivi che, essendo sfuggiti all'esplosione, vagavano nella foresta. Anche se il venti per cento di essi venne ucciso dagli zulù nelle due settimane che seguirono l'esplosione, la proporzione delle morti tra i nativi (due per ogni leone) scoraggiò perfino i periti più ottimisti. Si impose a quel punto la necessità di ri47
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