Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

44 SCHERZACOI FANTI GoffredoFofi La lettura di La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari (Einaudi, pp.87 lire 12.000) è per più motivi irritante. Anzitutto per la sbrigatività con la quale il resoconto di una vicenda di questo peso viene affrontata. La volontà di una pausa nella quotidiana attività giornalistica e lo sforzo di elevarsi trattando per una volta di veri grandi personaggi e non del miserabile quotidiano della politica sono cose lodevoli, ma allora l'interesse avrebbe dovuto essere più autentico e concretarsi in un lavoro più accurato e approfondito di questo, e in un'attenzione maggiore alla scrittura. Invece Cavallari, come moltissimi suoi colleghi, si prende sì il riposo, cerca sì la nobilitazione, ma senza in nulla rinunciare alla velocità e alla superficialità che sembrano ormai, almeno in Italia, la malattia mortale della sua professione. Il suo libro è sciatto, la fatica è stata affrontata senza fatica, per l'appunto come un riposo e una nobilitazione (cose in sé potenzialmente anche davvero nobili) tutte esteriori, e mantendosi al livello più scarso delle possibili motivazioni. Come una miniserie di articoli per quotidiano o settimanale, e non come "un libro". Ci permettiamo un'illazione, visto che l'autore di illazioni abusa e di spiegazioni su ciò che ha pensato e sentito il suo protagonista nel corso dei tre giorni da lui ricostruiti (e qui il suo testo è spesso insopportabile): qualche lettura recente deve avergli far pensato che quello della fuga di Tolstoj era un argomento buono, era un potenziale ''scoop'', ma che gli giovava farne un libro presso un editore ancora prestigioso, invece che degli articoli, visto anche che ormai - per saturazione e stanchezza - ciò che scrivono i giornali è presto dimenticato e buttato. La spia di tutto questo è nell'atteggiamento che Cavallari dimostra nei confronti di Tolstoj. A me ha ricordato una curiosa targa commemorativa posta sulla facciata della Società operaia del mio paese, dedicata a Pietro Gori e un po' insensata, visto che non è lì che il corpo dell'anarchico riposa: "Dove dormono i giganti, i nani di passaggio non sanno rendersi conto di tanta grandezza". Sia chiaro, di fronte a Tolstoj siamo tutti "nani di passaggio", ma alcuni questa grandezza sanno riconoscerla e rispettarla, e altri no. Lungo il corso del libro di Cavailari si avverte con insistenza la sotterranea intenzione di chi vuol sminuire un grande rendendolo più simile a noi nani per sentirsi meno piccolo, si avverte una non troppo nascosta antipatia per il personaggio di cui pure ha scelto di occuparsi. Tolstoj fu certamente contraddittorio - anche in questo è, a giudizio di molti - la sua grandezza - ma la contraddizione ha di per sé due poli, e Cavallari prende assai gusto a insistere su quello "basso" e a sminuire la portata e il valore di quello "alto". Si veda, per es., alle pagine 46, 62, 55, 56, o a pag. 64 (forse la più brutta e, nelle illazioni, la più forzata e la meno credibile di tutto il libro: che ne sa Cavallari di quello che Tolstoj pensava nei momenti più decisivi della sua esistenza?) e ancora altrove. A tratti, anzi molto spesso, la fuga di Tolstoj sembra raccontata tutta dalla parte della moglie Sof'ja ma, Sof'ja era anch'ella contraddittoria, e almeno a tratti si rendeva pur conto del valore di chi aveva accanto. Alle pagine 72 e 73, per un ultimo esempio, si riportano dei pensieri ultimi e belfissimi dettati da Tolstoj alla figlia Sasa sul treno della fuga, e Cavallari non trova di meglio che commentare: "ma mentre pensava questi alti pensieri (... ) non perdeva di vista( ... ) le malizie del viaggio". E con questo? L'idea era buona, certo, di scrivere un libro su questo argomento, di ricostruire queste prime tre giornate della fuga (ché Cavallari preferisce, senza molto convincerci, trascurare le successive alla stazione di Astapovo, e l'agonia e la ;norte, per il fatto che la fuga era ormai finita, o così almeno lui pensa). Ma perché non affrontarla lavorandoci di più? La documentazione è banale e ovvia, i testi di riferimento sono quelli canonici che ogni cultore di Tolstoj possiede, ma non più di quattro e cinque, e delle due testimonianze fondamentali, di Aleksandra Tolstoj e del medico Makovickj, non si dice dove le si può recuperare (non si dice per es. che l'ultima è disponibile nel recente Tolostoj nelle memorie dei contemporanei delle edizioni Raduga di Mosca, in lingua italiana e stampato nel 1984, in vendita presso le librerie Rinascita e altre). Perché non montare questi materiali "alla Enzensberger", costruendo romanzo con le testimonianze, abolendo gli interventi e le fastidiose interpretazioni ipersoggettive e l'attribuzione a Tolstoj di pensieri che chissà se ha avuto, e comunque troppo opinabili? Perché non portare, avendo ormai fatto l'altra scelta, più attenzione alla scrittura? La concitazione come regola, così consona alla velocità del giornalista, e tutte quelle elencazioni e quelle congiunzioni e quegli avverbi (i Tra ... Tra ... Tra nella stessa pagina uno in fila all'altro, e i Qui ... Qui ... Qui ... , i Poi .. Poi ... Poi. .. , i Dove ... Dove ... Dove .. , gli Oppure ... Oppure ... Oppure .. ) appaiono come un ricorso troppo facile per la creazione di una dinamicità della scrittura, di suspense nella lettura. Altro che "trasparenza del romanzo'', come dice la frase einaudiana di lancio: parliamo piuttosto di "trasparenza del giornalismo"! E già che si è parlato del lancio editoriale, perché aver messo questo libro, che avrebbe potuto se proprio lo si voleva pubblicare trovar collocazione nella colonna degli Struzzi, in quella dei Supercoralli, che ha visto giorni e testi migliori? Credo che la spiegazione sia in questo caso molto semplice, e implichi un discorso ché andrà pur approfondito, sul peso che nell'editoria e finanche nella letteratura italiana di oggi hanno assunto i libri dei giornalisti. Se si prende una qualsiasi classifica settimanale dei libri più venduti, si noterà come vi trovino posto massicciamente i libri dei giornalisti, in modo quasi assoluto quando poi si parla dei (cosidetti, così rubricati) Saggi. Gli è che i giornalisti hanno un potere mai prima così grande. Tenersi buoni i giornalisti è tenersi buoni i giornali, che recensiscono e propagandano prima di tutto i libri dei giornalisti dipendenti e amici e finanche "ri1---------------------'--------------------1 vali". Non solo i libri dei giornalisti vendono, per questi ovvi motivi, ma dipende anche dai giornali se il libro di un non giornalista viene recensito, propagandato, diffuso. Sono alleati troppo potenti per trattarli male, ma sono anche alleati pericolosi: perché la loro invadenza toglie spazio al resto, e la loro superficialità e rozzezza abitua il lettore al precotto, al rozzo e al superficiale. Il discorso ci porterebbe lontano, limitiamoci dunque a chiarire che la nostra ripulsa per i "romanzi" e i "saggi" dei giornalisti, e per la loro opera corrullrice (in tutti i sensi, e prima di tutto in campo politico e sociale) dipende da un vecchio amore e rispetto per la professione del giornalista, dalla convinzione profonda che il giornalismo può essere, è stato, dovrebbe tornare a essere anche qualcosa d'altro, che la funzione del giornalista è nella società- fonda-

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