Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

mente dedita all'autoriproduzione di se stessa: basta dare del resto un'occhiata alla lista degli autori, dove abbondano i giornalisti (per esempio Isabella Bossi Fedrigotti o Marcello Staglieno), i critici militanti (Claudio Marabini), i consulenti editoriali (Gesualdo Bufalino), i poeti (Valentino Zçichen), e soprattutto i professori (da Carmelo Samonà a Italo Alighiero Chiusano, da Antonio Tabucchi a Laura Mancinelli, per non parlare poi di quell'esordiente monstre che risponde al nome di Umberto Eco). Viene insomma da chiedersi che senso abbia parlare, fin dal titolo, di "esordio", quando poi qui gli absolute beginners sono una netta minoranza. A ogni modo il dato consegna all'evidenza chirurgicamente spietata della quantificazione percentuale quella che poi era una sensazione diffusa, svelando (si fa per dire) proprio un segreto di Pulcinella: il professore che pubblica un romanzo è un consulente della casa, o è già edito come saggista, ecc. ecc.; il critico, o il professore stesso, ha recensito, recensisce e recensirà ... voi m'intendete, ecc. ecc. "Così fan tutti" mi si dirà, "e non è il caso di fare troppo il moralista: l'autore già conosciuto dagli addetti ai lavori garantisce un minimo di copertura recensoria - di pubblicità indotta - e perciò di vendite, dunque evita sicuramente buchi e perdite secche che sarebbero letali per un'industria fragile come l'editoria libraria". Verissimo. Tutto questo però non rende meno sgradevole un malcostume che offre persino un briciolo di legittimazione alle paranoie persecutorie di molti non pubblicati; né rende meno miope la pubblicazione di molti libri insulsi, ma di autore più o meno noto. Del resto, se si eliminano i pochi casi di testi davvero notevoli (per esempio quelli di Tabucchi, Samonà, Bufalino), o che comunque hanno saputo cogliere dei bisogni non effimeri del pubblico (Eco), anche sul piano strettamente economico la scelta è redditizia solo sul breve periodo: quasi tutti questi libri sono infatti troppo gracili per sopravvivere alla chiusura dell'ombrello promozionale, e dopo quattro-sei mesi, massimo un anno, di vendite medio-alte pilotate si avviano a non ingiusto e per lo più definitivo oblio. D'altra parte mi sembra che gli editori stiano riafferrando l'importanza, in termini di psicologia del pubblico, del nome "nuovo" o presentato come tale: e non è un caso che, a prescindere dalla qualità dei testi, si sia montata con buon successo un'etichetta quale quella dei "giovani narratori". È probabilmente sulla scia di quest'ultimo fenomeno che nasce il secondo dei due volumi qui presi in considerazione, e cioè Under 25. Giovani Blues (Il lavoro editoriale, pp. 161, L. 14.000), "progetto" lanciato con un certo clamore grazie anche al nome del curatore, Pier Vittorio Tondelli, già "giovane narratore" di punta, qui nelle vesti usurpate di esperto del mondo giovanile. Il volume, dal titolo discretamente ruffiano, è una piccola antologia (tredici testi, uno solo non narrativo, di undici autori) degli oltre quattrocento inediti inviati da autori nati dopo il 1960 alla casa editrice BibliotecaGino Bianco marchigiana in risposta ad una campagna promossa da "Rockstar", "Reporter", "Annabella", "Panorama", "Fare Musica", dalla Radio della Svizzera Italiana e da quella di Capodistria. L'iniziativa (analoga a una, assai meno reclamizzata, lanciata pochi mesi prima dal Comune di Monza e dalla rivista letteraria "Il•bagordo") appare, di prim'acchito, lodevole. L'atteggiamento chiuso delle case editrici fa infatti un bel contrasto, ormai è noto, con l'inarrestabile alluvione d'inediti che affligge editori (un amico di una casa di medie dimensioni mi parla di tre-quattro arrivi al giorno) e riviste letterarie. È un argomento sul quale molto si è scritto e poco si è meditato, e sarà il caso perciò di tornarci un'altra volta con più calma: anche perché è fin troppo facile fare la satira di quest'esercito vagamente fantozziano di postulanti e aspiranti sedicenti scrittori, dal talento in genere meno che dubbio, dalla presunzione direttamente proporzionale all'ignoranza e che danno la sensazione di essere stati partoriti, assai più che da una seria passione per la scrittura, dall'accoppiamento poco giudizioso tra una mitologia del successo di marca mass-mediologica e una mitologia della "Letteratura" e della "Poesia" di fragili e pretenziose ascendenze scolastiche. Fatto salvo perciò un preliminare interesse documentario, l'operazione sottesa a Under 25. Giovani Blues resta tuttavia molto poco chiara. Tondelli dice infatti di voler fare qualcosa "a metà strada fra un'inchiesta di sociologia culturale e un discorso specificamente letterario": mentre però in unaricerca come quella di Lughi e Benussi le intenzioni sono chiare e, pur potendosi discutere certi presupposti, lo scopo di abbozzare uno spaccato complessivo è in qualche modo raggiunto, qui ci troviamo di fronte a una doppia ambiguità. I testi vengono infatti a parole offerti per la loro rappresentatività sociologica, ma poi di fatto sono scelti in base alla loro presunta esemplarità artistica, alla loro riuscita. Venuto meno il tentativo di suggerire un panorama complessivo (tant'è vero che, dei quattro tipi di testi identificati dallo stesso Tondelli nelle scritture giovanili pervenutegli, quello "generazionale", che poi altro non è che un "diario" più o meno corretto dall'immaginazione, è quasi l'unico esemplificato), la qualità estetica dei testi antologizzati è però, a parte forse uno o al massimo due esempi, davvero men che mediocre. Dopo di che, se si toglie la legittimazione offerta dall'astratto progetto-contenitore, non si vede proprio che bisogno ci fosse di pubblicare testi che nel migliore dei casi pbssono testimoniare di qualità ancora tutte da formare, oltre che da verificare. Al di là poi della in fondo scontata ingenuità formale, è un po' preoccupante la fiacchezza ideale e sentimentale di questo cronachismo svogliato, ultra-piatto, e linguisticamente schiacciato sui poveri gerghi della quotidianità. Certo, si deve ben sperare che, come sempre, la letteratura vera covi il suo futuro negli interstizi più segreti del reale, ed è anche ragionevole ritenere che qui le stesse predilezioni di Tondelli abbiano contribuito a dare un volto ancora più desolante a questi primi campioni della letteratura di domani. Se così non fosse, poco ci sarebbe da aggiungere at ritratto abbozzato da Arbasino su "La Repubblica" del 22 agosto, e davvero questi Under 25 sembrano "pacati, frugali, senza aspirazioni, contentandosi di pochissimo, resistenti e adattabili senza mirare a un qualcosa di più. Poteva intitolarsi, l'antologia, Vogliamo niente. Né passioni o disperazioni romantiche, né estroversione sperimentale d'avanguardia, né disciplina neoclassica, né ironia né desideri né carriere. Gelati, pizze, jeans, stereo, video, che palle, pennarelli, autostop, rock". Se si dubita dei figli, conviene però non dimenticare quali genitori morali e intellettuali abbiano avuto: e, a riprendere in mano il volume di Benussi e Lughi, capitolo "Le motivazioni alla scrittura", davvero, a parte qualche rara eccezione, le risposte medie degl'intervistati sono di disarmante povertà. La cosa risalta ancor più, se la si confronta con la sicumera d'altri tempi con cui moltissimi enfatizzano la solitudine angelica dello scrittore, la sua superiorità morale, la fatalità inesorabile come un fatto di natura che ne guiderebbe la sublime, improrogabile vocazione. Correlativamente, con una rimozione che è fin troppo ovvio specchio dell'auto-sublimazione mistificante, e che si fa aperta malafede se confrontata con i dati editoriali cui si accennava sopra, pochi ammettono il ruolo determinante dell'industria culturale: la ignorano, o se ne sentono del tutto autonomi, oppure la demonizzano, opponendo sdegnati che la loro attività ne starebbe all'interno soltanto allo scopo-di contestarla e di metterla in crisi (così, per esempio, Barbara Alberti e Susanna Agnelli!). E la mitologia tardo-romantica e decadente dello scrittore magicamente còlto dall'ispirazione è tanto resistente, da consentire a pochissimi di ammettere l'esistenza di una professionalità, di un'artigianalità della scrittura: per molti è evidente che l'arte sta al lavoro come l'acquasanta al diavolo. Non c'è insomma troppo da stare allegri; pure però qualche singola risposta riportata da Benussi e Lughi si distingue improvvisamente, c'illumina di radi bagliori. Soprattutto mi sembra in qualche modo consolante che buona parte degli scrittori dichiari una, per così dire, fame di realtà: è ancora, d'accordo, la constatazione di una mancanza, ma dove la forma autocritica implica la ricerca di un progresso, di un radicamento meno superficiale ed episodico nella concretezza della vita quotidiana. Si tratterà poi di vedere quale sarà la realtà da rappresentare, e quale anche la vita quotidiana in cui mettere radici: ma questo, naturalmente, non sarà compito solo per gli scrittori. AVVISO Al LETTORI. Ci sono giunte molte recensioni interessanti in risposta alla nostra richiesta. Ne pubblicheremo una scelta nel prossimo numero, scusandoci di non poterlo fare in questo per ragini di spazio. 43

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