Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

culatorie, scarmigliate agitare le braccia. Cosa blocca, cosa inamida sul mio volto e fra i miei muscoli quell'eccesso che mi spetta di diritto? È vero, troppo spesso ho cercato di negare con la cultura la presenza quotidiana della morte; così, uomo civilizzato, tengo sotto controllo le paure, così nego la "barbara" spontaneità delle passioni. Più che animale furente per i cuccioli sottratti, io sono la lucertola che per salvare il resto del suo corpo sacrifica la coda alla tagliola. Questa catastrofe ha, in qualche modo, il sapore del replay, ripete, cumulate in sé e trascinate nel suo vento astrale, tutte le mie precedenti separazioni, tutti i miei lutti precedenti. Dov'è almeno quella purificazione, quella fecondazione che sempre ho collegato a un'esperienza tanto radicale? No, non c'è motivo di essere stoici. In realtà non sono stato colto di sorpresa. I segni precursori nel suo corpo e nel nostro matrimonio si erano andati, negli ultimi tempi, accumulando. Volevamo sperimentare una separazione, a lei la casa e il bambino, a me il nuovo. Una separazione, questo lo so, in cui col tempo io avrei condannato Lella (e Alvaro) alla pena - forse più grave - della dimenticanza (pur continuando - è ovvio - a dare il dovuto). Di quanta gente infatti già trascino in me le spoglie, gente che ho amato, che di colpo ho fatto poi cadere e che ora dimentico (salvo improvvise quanto insignificanti epifanie). Gente che è ancora viva, in giro da qualche parte; amici di cui regolarmente scrivo nella rubrica recapito e telefono a matita, per poterli all'occasione cancellare e sostituire. Questa separazione, se non altro, è meno sconcia. E, forse, è meno dolorosa perché non devo sopprimere io, ancora una volta, l'altro dentro di me. Lento tirocinio a questa calma rassegnata è stato il progressivo assaporare l'estinguersi del nostro amore, affrettato dall'arrivo del bambino. La sua irruzione in equilibri già precari ha accelerato un decorso per certo inarrestabile. Legatario di una missione che non sento il dovere di portare a termine, mi trovo ora solo assieme a lui. Già da tempo, del resto, in quel microcosmo argentino che era diventato il nostro appartamento, non mi identificavo più con la cultura pervasiva di Lella, cultura che con eccesso di entusiasmo e di ambizione ancor prima di conoscerla avevo fatto mia: metà dei miei libri sono spagnoli, ho vissuto in Messico e in Spagna e in quella lingua sovente penso e sogno. Da qualche mese, però, i suoi ponchos, sui letti e alle pareti, i suoi dischi di esuberante e un po' retorica passionalità, il suo radicalismo verbale, gratuito e aggressivo, il suo stesso inattuale nazionalismo, che un tempo mi faceva sorridere, così come sorridere mi faceva sentirla dire "taccuino" anziché "tacchino", mi restringevano in un percorso obbligato e prevedibile. Con stupore mi sono sorpreso a intercalare nei nostri discorsi espressioni del dialetto di mio padre - dialetto, per altro, da me sempre aborrito, ricordo di una regione così lontana ormai da quella dove da anni vivo - affiorate da angoli remoti quale elementare, infantile resistenza. E quanto più mi allontanavo dal suo modo di esprimersi, BibliotecaGino Bianco STORIE/CAZZOLA35 dal suo sistema di valori, tanto più curavo l'elaborazione d'un mio controsistema. Che "contro" poi non era molto, trattandosi piuttosto di un ritorno a modelli dell'adolescenza. Ho dunque curato me stesso negli ultimi tempi, ho badato a differenziarmi: nel mangiare, nel vestire, nelle letture, nell'uso sempre più frequente dell'italiano e di una polemica calata dialettale. Sono andato per negozi e mi son fatto una nuova montatura, in tariaruga, per occhiali fotosensibili, mi sono comperato una Mont Blanc pennino oro, una Lambretta, un Loden. Guardo ora con diffidenza il baule in cui ho ammassato i suoi vestiti, in attesa che la sorella venga a prenderli , mute reliquie. Lella, per quanto io ti abbia veramente amato, pure, con fiuto da segugio, con disperato senso di autoconservazione già ti avevo in me con me sostituita, antidoto alla tua presentita perdita è stato un mio voluto ritrovarmi. Ma con me stesso, prima, ora, non sono meno solo. r:, ualche anno fa, prima di sposare Lella e di trasfe- r..l rirmi in una città così lontana dalla mia, partivo a volte il venerdì per la Riviera, dove mia madre ha in affitto un vecchio appartemento. Al terzo piano di un casermone rosa pallido, un po' discosto dal mare, la vista sul paese ci è negata - fuor che nei mesi più rigidi dell'anno - da folti pini marittimi, i cui estremi barbigli si insinuano fra le persiane con lo stesso minaccioso lussureggiare che occulta spesso le rovine. Custodi un po' distratti di queste ampie stanze infilate a cannocchiale l'una nell'altra, ci avvicendiamo a intervalli irregolari nella casa io e mia madre. In una di queste assenze prolungate la materia che circonda, tentacolare, la facciata della casa ha prodotto un aribitrario mutamento: nel liberare le finestre dagli scuri, che garantiscono ogni tipo di impenetrabilità al nostro appartamento, sento un improvviso battere di colpi tra i vetri e le persiane. È un rumore disordinato e non mi riesce di localizzarne la fonte. È come se qualcuno picchiasse all'impazzata sulle pareti di~ una cella di cui cerca invano l'uscita. Vedo quindi, incuneato nell'angolo basso e più riparato della finestra un viluppo di foglie e rami tratti dagli abeti circostanti. Sentendomi armeggiare nella serratura e con il contatore elettrico, gli uccelli che vi avevano nidificato sono scappati per le lamelle verdi delle gelosie, solo un ultimo - nella concitazione - non ha trovato il varco e ora dimena, impazzito, le ali. Provo un misto di simpatia e di stizza, di apprensione e di insana eccitazione: quella che si propaga nel corpo dell'essere più forte dinanzi all'intimorita, ansante inferiorità del debole in cui l'istinto di conservazione è offuscato dal panico. L'uccello vola ora disordinatamente nell'entrata, batte colpi secchi contro i vetri di un armadio, torna alla persiana che non mi decido ad aprire, un po' per non distruggere il nido, un po' perché un istinto profondo (dorme in me il cacciatore o il sadico?) me lo vieta. La sua eccitazione, progressivamente, mi si comunica. Risoluto ad acchiapparlo, alla fine l'ho in pugno, lo stringo e ad ogni sua contrazione rispondono un intensificarsi della morsa e un formicolio nella mia schiena: oscillo tra istinto protettivo e voluttà di distruzione.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==