Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

CONALVARO Roberto Cazzo/a ~ ano sola nella stanza con Alvaro. Tutto attorno i suoi ~ giocattoli disegnano fra pavimento e mobili misteriose simmetrie di preferenze che a poco a poco sto imparando a riconoscere. le bracciaprotese verso l'alto, lo sguardo incantato da un punto che nel vuoto non riesco a individuare, grida ormai da più di un 'ora così, scompostamente. Mi fissa di colpo e tace. li labbro inferiore pende infuori, l'occhio destro va un po' per conto suo. Sul volto, reclinato con grazia da una parte, si delinea un sorriso malizioso e invitante. Improvvisa, rinnovata prende forza la speranza, trascina con sé attese a lungo negate. Mio è questo sorriso fascinatore che dà infine requie al tuo monodico ululare. Sediamoci vicini, ecco, prendi il tuo sga- . bello arancione, qui accanto a me, allaNini - non oso dire mamma, non so dire nonna. Bruciano, Alvaro, i morsi dove protervo stringi, lasciando una rosetta di denti irregolari: sento su me gli sforzi di una bocca che sonde di vitaforzata hanno atrofizzato ai nostri bacifuturi. Mi dai, incapace a deglutire, la polta che rigiri in bocca, ridendo assieme a te la getto al cane che la ingolla al volo. Come spiegare agli altri che noi ci apparteniamo? Come dire loro che debole è la tua malattia e forti noi in questa casa dove i tuoi giochi ricreano gli spazi, aprendoli ad altri percorsi e ad altri riti? Saprò io cogliere sfumature e intonazioni di quei suoni con cui tu definisci il dentro e il fuori e sarà con il linguaggio dei sensi che ti dirò giorno per giorno dov'è ciò che tu cerchi, cos'è che mi occupa la mente? ~ ono rimasto solo nella casa con Alvaro. Lo sento con- ~ trarsi nel letto, battere ritmicamente con la mano il materasso dalla parte dove dormiva Lella, ne percepisco la calda umidità, l'odore acre. Questi tonfi, quasi messaggi in codice, richieste di soccorso di un corpo dimezzato dentro, inquietano la veglia. Vigilo impotente su di lui. Che vuole? Gli ho dato da mangiare, abbiamo rovesciato insieme le ultime due file di libri dall'armadio che chiude l'andito; fra lavandino e fasciatoio mi sono preso calci, ora controllo che non cada a terra nel suo sonno agitato. Quando in questa camera dormivamo in tre, a ognuno corrispondevano spazi e funzioni definite; fra me e Alvaro, fra me e l'ansia che ne promana quasi senza discontinuità, Lella innalzava uno schermo al riparo del quale io potevo occuparmi di me stesso: tagliarmi le unghie, fumare, leggere o preparare il lavoro per il giorno dopo. Negli ultimi mesi, poi, questa rigidità di ruoli aveva promosso la mia innata propensione al monologo, all'autismo. Attività che più facilamete mi riesce se sono in una solitudine, in un silenzio non siderali ma mossi, per così dire, da comparse intime. Ognuno aveva, insomma, un contratto silenzioso che veniva rispettato come inviolabile. Alvaro non doveva disturbarmi attivamente, - sono sempre stato un capace contenitore solo di ansie che libere circolano nell'atmosfera, che io ad arbitrio catturo e seleziono - e Lella non doveva gravarmi con BibliotecaGino Bianco la sua paura della morte, che col tempo si faceva dominante, intervallata ad aggressività improvvise, mistificazioni di una forza d'animo e fisica che lei, di colpo, voleva dimostrare a spese mie. Ma questo figlio non l'aveva forse voluto lei come magica riaffermazione della vita? Dal giorno in cui Alvaro è entrato in casa nostra, ho cominciato a vivere con due malati; non era forse ovvia e prevedibile la loro coalizione? Sentirmi il bersaglio non dichiarato di questa alleanza mi è parso quasi un obbligo: sono alto un metro e novanta, peso più di ottanta chili e da due anni non mi sono preso nemmeno un raffreddore. Certi giorni guidavo come un ubriaco, sperando in un drammone di cui io fossi una buona volta il protagonista, fantasticavo in queste corse di amici che si informavano di me con Lella, che attendevano con apprensione dietro alla porta impenetrabile di un reparto d'ospedale. Ma io ero destinato a un ruolo di comprimario, a una parte di spalla. Oggi devo reinventarmi il rapporto con il bambino. La casa la voglio smantellare: vi domina incontrastata la cultura di Lella, interrotta qua e là da pochi ricordi della mia casa paterna: la custodia incorniciata di un disco di Edith Piaf che sentivo da ragazzo, una lampada in ottone, la mia vecchia collezione di pipe. r:, assivo debitore verso di te, Lella, mi sono lasciato tra- i.li scinare nella traiettoria, per certo fuorviata, del tuo istinto di sopravvivenza. Cedovole materia, ho rotolato dietro la sfera in rapida dissipazione della tua vita; una vita a breve scadenza, ossessionata dall'ansia di investire presto, subito, senza possibilità di scelta, là dove un'altra nuova,,vita lo esigesse. Adottare. Tu, in quelle condizioni non potevi altrimenti. Adottare. Ditele soltanto dove, e lei sale sul primo treno o aereo per prendersi chi le spetta di diritto. È suo. Di certo le somiglia, fosse anche Singalese, Curdo o di Andorra. Io sto a guardare. In questa sua frenesia starò sempre a guardare. Lei mi dirà: "Guarda, sorride. Guarda, dorme. Guarda, vuol prenderti gli occhiali". Io guardo. Come se mi dicessero: "Quello è il Monte Rosa; qui mio zio ha l'ambulatorio; quella è la tintora". Non costringetemi alla partecipazione: se c'è da. cucinare, vestire, sorridere per una foto in tre, io non mi tiro indietro. Ma che condivida queste emozioni di chi, pure, a intermittenza amo, non me lo potete chiedere. Ho la coscienza a posto, Lella, né mai ti ho ostacolato; volevi? Hai avuto. Anche a costo di portarci a casa un altro malato, a riempire le ore, le giornate di te disoccupata che all'unico lavoro trovato - assistenza notturna in cliniche private - crollarvi dopo due ore più a pezzi dei vecchi che tu pulivi. [! upus, nome favoloso. Evoca scenari d'infanzia, paure primordiali. Sonnecchia per anni nella coscienza; ormai l'associ solo a cane-lupo, lupo di mare, lupus in fabula e poi, un giorno, ti trovi di fronte a una ragazza andina, dalle guance rosso-violacee, in cui tu leggi la filigrana di mille venuzze,

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