FULL Oreste Del Buono ~ in corso di raccolta il voto contro o a favore della cac- liil eia. Nessuna difficoltà da parte mia a votare contro la caccia con tutto il cuore. Non sono neppure un cacciatore pentito, sono figlio di cacciatore e, la caccia, ho cominciato a odiarla per tempo. A ogni modo, nel mio voto esistono sfumature d'ombra che non lo rendono tanto limpido. Ho cominciato a odiare la caccia da piccolo non per pietà della selvaggina, ma per gelosia dei cani da caccia che avevo l'impressione mi sopravanzassero nell'affetto di mio padre. È brutta a dirla così, ma è la verità nuda e cruda. La memoria non serve solo a falsificare di dolcezze inverosimili il passato, a volte può servire a farci intuire chi siamo realmente, da quale miscuglio di impulsi non proprio commendevoli risultiamo. Mio padre era il mio eroe domestico. A dar retta a mia madre, era l'uomo migliore che esistesse. Me n'ero convinto anch'io. Logico, dunque, che mi bruciasse il fatto che il sabato fascista e la domenica cattolica apostolica romana mio padre scomparisse per le sue partite di caccia. Certo, nella natale Elba, lui cacciava sempre, in regola con le leggi o di frodo, secondo l'uso dei signorotti toscani. Trasferitosi in continente, costretto a lavorare, dopo la nascita del suo primo figlio e il fallimento di suo padre, aveva ovviamente meno tempo a sua disposizione per cacciare, e appunto per questo non lasciava perdere un minuto che fosse un minuto, libero da incombenze impiegatizie. Avrei voluto accompagnarlo, ma lui mi diceva che non era roba per bambini. Così se ne partivano all'alba e rientravano a notte lui e il cane Full e la cagna Diana che dall'isola ci avevano seguito in continente. A tavola ascoltavo resoconti di mirabolanti avventure, e non sapevo capacitarmi di non poter sostituire il cane Full o la cagna Diana. «Perché no?» insistevo. E mio padre era brusco. «Loro sono professionisti. Loro sanno cosa fare». La gelosia è orribile, però è in grado di riempire una vita sciagurata. Il cane Full e la cagna Diana diventarono la mia ossessione; la palese preferenza di mio padre ne faceva i miei nemici, gli usurpatori dei miei diritti di figlio. Tutto quello che riguardava me mi appariva ingiustamente meschino. Inutilmente cercavo di sobillare contro quei due cani i miei due fratelli, erano troppo piccoli per darmi retta. Così compii la mia manifestazione di protesta tutto da solo. Occupai il casotto che mio padre aveva personalmente costruito per il cane Full e la cagna Diana sul terrazzo della casa in città. Mi ci asserragliai, scacciando-'·idue cani, resistendo alle ingiunzioni di mio padre, in battibecchi feroci. «Su, non far lo stupido, vieni fuori». «No, questa casa è mia». Non finì bene, insomma. Mio padre era un grand'uomo, ma, quando perdeva la pazienza, la perdeva. Comunque, qualcosa doveva aver turbato anche lui nel nostro scontro. Essendosi ammalata la cagna Diana, un giorno mi disse: «Preparati per domani, ti porto a caccia. Vediamo come te la cavi». La cagna si era certo ammalata per gli accidenti che le avevo mandato, guardai il cane Full con la maggiore attenzione, augurandomi di riuscire a nuocere anche lui. Ma stava più che bene, quando si partì all'alba del giorno dopo, mentre io cioncavo di sonno, non avendo quella notte chiuso occhio per l'eccitazione. Fu per BibliotecaGino Bianco me una caccia tragica. Cominciai a scoprire un mio padre diverso la prima volta che spadellò con una starna e le gridò dietro: «Vigliacca». Full abbaiava, consenziente. A me non pareva troppo leale. Provavo una grande difficoltà a procedere, a tener dietro a cane e padrone nella macchia. Gli arbusti, le foglie, i pruni erano riluttanti a concedermi il minimo varco. Il cane davanti, invisibile, si rivelava all'ansare diligente ed entusiasta. Poi incedeva mio padre, il cappellaccio di feltro malandrino librato nel cielo orientale di mattina, pallido giallo radioso che corrodeva pallido grigio languido. Gli tenevo dietro a fatica, a quei due, con una gran voglia di chiedere clemenza, di impetrare compassione, di invocare una qualche complicità e, invece, spasimavo per la necessità di non tradire la mia debolezza, di stare al gioco, di patire in silenzio se proprio non ce la facevo ad abbaiare, pena la mia sconfitta persino come vicecane, anzi vicecagna. Una stella agonizzava ancora notturna, si spegneva ammiccando, la macchia era tutta un frusciare. E mio padre alzava di nuovo meticolosamente il fucile. Un colpo, due colpi, una nube di piume lassù, che poi impercettibilmente dispiumava; l'uccello ammazzato era già caduto, di piombo, quello ferito vorticava, sfiduciato, si abbassava ineluttabilmente. Ancora una volta correvo, con il fiatone, nella sferza della macchia, ancora una volta votato al peggio. Sino ad allora, il maledetto cane Full mi aveva sempre battuto. I ginocchi ammolliti dalla guazza mi cedettero, andai giù, che tentazione restarci, abbandonarmi finalmente al sonno e, invece, annaspai per rimettermi in piedi, continuare l'inutile gara impari col mio rivale eternamente vittorioso. Ma questa volta no, l'uccello ferito era, per caso, lì sotto i miei occhi. Si muoveva pesantemente, remigava con quell'ala spezzata un groviglio di disperazione grigia e marrone. Con un sussulto sfuggì alle mie dita non troppo decise. Stordito dall'inattesa fortuna, riafferrai la starna, palpitava contro il mio palmo, infelice, tenera, pericolante vita. Non ce la feci a trattenerla, la lasciai di nuovo sfuggire. Strusciava tra l'erba, cercava di confondersi nella terra, le piume arruffate, l'ala sconciata, la stilla di sangue sgorgante dall'afono becco. «Ma è ancora viva», disse mio padre. «Non lo vedi che è ancora viva? Finiscila». Ripresi la starna in mano. Quell'occhio a succhiello era insopportabile, gli si chiudeva, gli si riapriva. Balbettai: «Io, io». Mio padre era severo: «Finiscila. O vuoi che lo faccia fare a lui?» La minaccia era peggio che chiara, ma era peggio che chiara anche la mia impotenza. «Ecco. Io non ci riesco, ecco», dissi quasi con voluttà. Come vicecagna ero fallito. «Lascia che lo faccia lui, allora, buono a nulla», sentenziò mio padre. Il maledetto Full aveva ovviamente ascoltato il nostro colloquio. Teneva tra le fauci l'altro uccello, quello morto subito. Lo depositò nella mano di mio padre. E poi avanzò verso di me, servile, abietto, feroce, pronto a qualsiasi ignominia pur di meritare il compiacimento del padrone. L'occhio della starna agonizzante si riaprì, un sussultò rianimò quella povera cosa grigia, marrone, rossiccia abbastanza da farmela sfuggire di nuovo dalle dita. Il cane l'aspettava a fauci spalancate per inferirle il colpo di grazia.
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