GROTOWSKIN ITALIAALCUNETAPPE Renata Molinari Sono passati più di vent'anni dal primo viaggio in Italia di Jerzy Grotowski. Venne per la pubblicazione di un libro in cui la sua attività veniva presentata come la ricercadi un teatro perduto. L'autore era un suo allievo: Eugenio Barba. L'incontro fra questi due uomini, la diffusione di una poetica del laboratorio, la proposta di un teatro povero, hanno lasciato una traccia profonda nella cultura non solo teatrale del nostro paes·e. Grotowski non aveva ancora presentato uno spettacolo in Italia e già era un punto di riferimento per gli uomini di teatro. Venne poi il Principe Costante e la pubblicazione di Per un teatropovero, che vedeva Peter Brook affiancato a Barba nel dichiarare e chiarire la straordinaria unicità della ricerca di Jerzy Grotowski. La presenza di Grotowski in Italia, fin dall'inizio più che un fatto teatrale è un avvenimento culturale, all'insegna della continuità e del contagio. Il suo "metodo" si presenta col fascino della fondazione teorica e l'inquietudine della disseminazione pratica. Come maestro della scena Grotowski ripensa e riformula la lezione di Stanislavskij per quanto riguarda il percorso dell'attore, "la fenomenologia e il significato della recitazione" (Peter Brook) e al tempo stesso opera una riflessione sul corpo sociale del teatro che in precedenza aveva trovato solo in Brecht una così precisa realizzazione drammaturgica. Bisognerà aspettare dieci anni perché Grotowski si ripresenti in Italia con una panoramica completa del suo lavoro: è l'autunno del 1975, la Biennale di Venezia, accanto ad Apocalypsis cum figuris presenta, raccolte in un progetto speciale, le attività parateatrali di Jerzy Grotowski, per la prima volta presentate organicamente fuori dalla Polonia. L'ultimo spettacolo viene presentato col sapore dell'irrevocabilmente finito: non ci saranno altre produzioni spettacolari, ma progetti speciali, attività parateatrali, il confronto transculturale del "Teatro delle Sorgenti". Ora, ancora a dieci anni di distanza, il Centro per la ricerca e la sperimentazione teatrale di Pontedera promuove e ospita il Centro di lavoro di Jerzy Grotowski in Europa (l'altra sede di attività è in California, presso l'lrvine University) che si propone come un "luogo di lavoro sulle tecniche performative", con un programma triennale, una sorta di trasmissione pratica dell'esperienza dell'artista polacco. Dal momento della presentazione del Progetto speciale a Venezia, si sono ripetute in Italia le iniziative (convegni, rassegne, pubblicazioni, lezioni universitarie) dedicate alla attività di Jerzy Grotowski. Un tratto comune di queste iniziative, salvo i rari casi in cui egli parla in prima persona del proprio lavoro, è che tendenzialmente si parla di Grotowski al passato: nel momento stesso in cui gli si riconosce il .ruolo di maestro, lo si isola nella rassicurante lontananza di ciò che è già compiuto. Ora che la "fase teatrale" è conclusa, ed è dichiarata conclusa anche la fase parateatrale, sembra svanire l'oggetto stesso di ogni possibile indagine. Non è neppure un problema di linguaggio ormai (nel qual caso ci si potrebbe trincerare, come in passato, dietro il mistero "ineffabile" delle sue pratiche) è un problema di costante progresso della sua ricerca, nel presente, e di incessante trasformazione dei suoi esiti. Paradossalmente proprio oggi sono più dichiarati e confrontabili gli strumenti teatrali del suo lavoro, pur restando ferma la necessità di difenderlo da facili divulgazioni e approssimazioni, soprattutto ora che l'obiettivo della ricerca è esplicitamente l'uomo, sia pure attraverso lo strumento delle "arti performative". La stessa presenza di collaboratori, allievi o assistenti, si fa sempre meno evidente: Grotowski è la sua ricerca. In quanto tale Grotowski continua a dare non pretesti per il dilagare di mode, ma precise indicazioni di scelte ("un modo di vivere è anche un modo per vivere", diceva della sua ricerca nel 1967 Peter Brook), a volte provocazioni, sempre una precisa e impietosa analisi della nostra cultura, dei suoi vizi e delle necessarie misure pratiche da adottare contro i suoi pericoli. Tutto questo è e non può essere che presente, un presente colto attraverso una "inattualità" scomoda, di fronte alla quale è un atto di totale mobilitazione non già trovare le risposte, ma anche il solo accettare le domande. BibliotecaGino Bianco Preliminare necessario per accostarsialla pratica culturale di Grotowski è un aggiustamentodellinguaggio. Questa operazione genera sicuramente disagio, soprattuttoper orecchieabituate alle eleganti formulazioni delle nostre teorie, anche solo teatrali, e alla circolarità del dibattito intellettuale. L'antintellettualismo è proprio uno dei tratti che maggiormente caratterizzano il suo linguaggio, raramente elegante e mai rassicurante: le sue parole hanno la precisione e la concretezza di azioni fisiche, la sua frasenon risponde mai a un principio estetico, è spezzata o troppo scarna. Questo-costringeall'attenzione, mette all'erta il lettore, spiazzato da una necessitàdi comunicazione che prende a prestito, se è il caso, la tecnicadel montaggio delle azioni fisiche proprio della sua pratica teatrale.E ancora la sorprendente nai'vité nell'usare termini filosoficio scientificil,'attingere a linguaggi diversi, perché generati da diverse culturee usati in contesti diversi, il ricorso alle parole della sapienza, tradizionalmentetenute fuori dalle dispute teoriche. Tutto questo è propriodi chi cerca una teoria che gli sia fedele, riconduca a unità le esperienze,e allontani il pericolo che la ricerca della conoscenza sia assimilataalla creazione di una ideologia. In tal senso i temi da lui proposti e affrontati nello sviluppo delle sue attività, sono per noi ancoratutti al presente e ci interrogano circa la necessità e il senso di una pratica culturale. Prima di tutto il concettodi culturaalliva. Sono gli anni settanta, gli anni della cultura dellapartecipazione,quando Grotowski propone la sua strada versounacultura ttiva. Nella nostra fame di esperienze creative o comunque "spontanee" l'accento si sposta tutto sull'aggettivo attivo, di cui culturasembra essere un semplice supporto. La questione della culturaattiva resta aperta. Certo non può risolversi nel fare esperienze, anche se è indubbiamente facile, in un momento in cui alla cultura si sovrappone l'acculturazione e alle tecniche le mode, consumare momenti intensi e frammentati, ignorando il pericolo ben concreto di un attivismo senza scelte. Ma che cosa significa essere attori nellaculturadella partecipazione? Essere colui che agisce, che realizza la propriascelta? La qualità della presenza rischia di risolversi in un protagonismosterile, che la logica del consumo assimila alla ideologia del successo.Non la prestazione, ma la funzione restituisce all'attore la pienezzadi una cultura partecipata. Quasi naturalmente la proposta approda a una istanza di organicità che fa tutt'uno con una ecologiadell'umano che compara le tradizioni alla ricerca delle radicidell'agire umano, del suo radicamento nella realtà e non solo nellascena. Proprio questa "transculturalità" inevitabilmente estranea alle dispute ideologiche, crea il terrenoper la "messa in opera" della dialettica fra tensione spirituale e pragmatismo. Esiste nelle proposte di Grotowski una sorta di pagmatismo dichiarato e a volte ostentato. li pragmatismo di Grotowskinon è, come in certi epigoni, fiducia magica nell'azione, ma realizzazionepratica di un itinerario di conoscenza che si difende costantemente dalla tentazione del narcisismo intellettuale ed estetico e dal pericolodelle interpretazioni. L'interpretazione, quanto più arricchiscel'azione di valenze simboliche e di parentele ideologiche, tanto più la svuota di ogni possibilità di relazione col mondo delle cose. L'azione èletterale, ripeterà Grotowski presentando le sue attività parateatrali. Questa costruzione passanecessariamente attraverso l'uso e la padronanza di tecniche. Tecnichedel corpo, teatrali o tradizionali, tecniche personali, strumenti di estrema precisione e di grande penetrazione. La loro pratica, prima ancora di giungere alla attuale ricerca sul!' orgànon, rimandanecessariamente al problema della trasmissionee trasformazionceulturale. E in questa prospettiva cade, per seguaci e detrattori, la possibilitàdi giocare sulla ineffabilità di azioni che nel ridurre tutto a sé, denunciano in realtà una impotenza a fare esperienza del mondo, per lo meno una rinuncia a operare sul piano della trasformazione. La trasformazione è il compitoche ci si pone, dal momento in cui osiamo affrontare il problemadelleradici o, in altri termini, della identità. La strada è oggi tutta da percorrere, certe ricerche (e certi momenti) consentono una attivitàprotetta, da laboratorio. Altri momenti e altre scelte impongono una ricerca in pubblico. L'organicità con il tessutoculturale e sociale diventa allora l'intrecciarsi di percorsi irrinunciabili,così la pratica della solitudine in pubblico, esemplare nell'artista,divental'attitudine di chi riscopre la propria tradizione, vale a dire la ricrea(per usare ancora una espressione di Grotowski), giungendo alla espressione che è "dono della ricerca".
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