Linea d'ombra - anno IV - n. 17 - dicembre 1986

22 R. Ciés/ak in Il principe costante. BibliotecaGino Bianco creto. Qui è il punto molto pericoloso e molto importante. Noi possiamo, seguendo questa strada, giungere a una forma di rivolta che non è solo verbale, ma anche anarchica, che è il rifiuto delle nostre responsabilità. Direi che nell'ambito artistico questo atteggiamento si presenta sotto forma di dilettantismo. Io non sono credibile nel mio mestiere. Non ho maestria. Non ho capacità. Sono veramente un dilettante nel peggior senso del termine. Allora mi ribello. No, non si tratta di questo. L'arte come rivolta consiste nel creare un fatto compiuto che respinga i limiti, le frontiere imposte dalla società, o, in un sistema tirannico, dal potere. Ma non potete respingere questi limiti se non siete credibili. Il vostro fatto compiuto è una merda, se non è un fatto profondamente competente, se non è stato elaborato in ogni suo punto. Sì! È blasfemo, ma è preciso. Sì! Sapete quello che fate, avete elaborato le vostre armi, avete credibilità, avete creato il fatto compiuto che è di tale maestria che nemmeno i vostri avversari possono negarlo. Se non avete questo tratto di competenza, nella vostra rivolta, siete destinati a perdere tutto nella vostra battaglia. Anche se siete sinceri. È come la storia della controcultura negli Stati Uniti negli anni. sessanta. Non esiste più: fottuta. Non perché non ci fossero in essa elementi di sincerità e di grande valore. Ma non c'era abbastanza competenza, precisione, consapevolezza. Come il vecchio film di Bergman il cui titolo in polacco era Ha danzato una sola estate. Sì, erano gli anni sessanta; hanno danzato una sola estate; e hanno abbandonato tutto senza chiedersi se aveva valore o no. Un gran fuoco d'artificio: si danza, si va in estasi; e dopo non resta nulla. La vera rivolta nell'arte è qualcosa di persistente, competente, mai dilettante. L'arte è sempre stata questo sforzo di confrontarsi con ciò che non è sufficiente, e per questo stesso fatto essa si pone come complementare della realtà sociale. È veramente necessario non concentrarsi su una cosa troppo limitata come il teatro. Il teatro come tutti i fenomeni che gli stanno attorno, l'intera cultura. Possiamo utilizzare la parola teatro come possiamo abolirla. Ma al di là di questo funzionamento quotidiano, della ricerca della nostra stabilità nella vita, di non essere troppo diversi dagli altri, di essere abbastanza diversi per riuscire interessanti, di ripetere come un disco le frasi che si ripetono in questo periodo, di criticare i nostri genitori ma di commettere i loro stessi errori, in realtà di dimenticare i nostri genitori e tutto quello che ci hanno dato; tutta questa vita non è sufficiente, c'è ancora qualcosa. Se qualcuno vede ciò fa cultura o religione. In questa battaglia si passa per differenti fasi. Noi abbiamo seguito qualcosa e ora comprendiamo come funziona. Allora noi siamo nella stessa situazione di un Globe Trotter del diciannovesimo secolo che ha viaggiato attraverso una macchia bianca sulla carta delle montagne in Australia. Tutti gli dicono: "Hai raggiunto un tale successo nella tua esplorazione della macchia bianca delle montagne d'Australia! Allora viaggia per le montagne d'Australia, viaggia là (per il resto dei tuoi giorni)." È questo che ci chiedono. Il che significa chiedere di cambiare la propria avventura e la propria scoperta in turismo. Ma no, è la macchia bianca che bisogna penetrare. Si cambia rotta, si cerca un'altra macchia bianca e poi un'altra. Ma si è sempre legati anche alla situazione sociale. C'è tutta la vita intorno a voi, le nuove stupidità che avanzano e le vecchie che muoiono. Allora bisogna confrontarsi con le nuove stupidità, non con le vecchie. Ci sono nuovi avversari che si fanno avanti. Sono più o meno gli stessi avversari. Ma si sono travestiti. Si presentano sempre con una nuova maschera. Allora anche noi ci presentiamo con un nuova maschera. E il duello continua. Dunque c'è il problema della complementarietà ma anche quello della nostra propria avventura tecnica e artistica. Quando si parla del fenomeno para-teatrale, in verità si tratta del problema del teatro di partecipazione. Noi siamo di fronte a due domande molto importanti: prima di tutto qual è la differenza fra recitare/fingere e essere. E secondariamente, che cosa è un vero incontro? Che cosa deve esserci in comune fra gente che non si conosce perché si verifichi un vero incontro? Fino a che punto possiamo ridurre tutte le condizioni per creare una struttura talmente semplice che nessuno sia costretto a fingere l'incontro o a mostrare amicizia per persone per le quali non prova alcuna amicizia, o a mostrare uno spirito collettivo che è un certo modo di rinunciare a se stesso? (Non si tratta di annullare la cooperazione tra le persone, ma un collettivo dinamico è impossibile se non ci sono all'inizio degli individui). Tutte queste domande si presentano in maniera assai concreta. Allora bisogna sempre in primo luogo vedere le banalità, i clichès che si presentano. Ci sono le banalità del teatro di partecipazione, così come ci sono quelle del teatro classico. Esse sono: fare i "selvaggi", imitare la trance, sovrautilizzare le mani, creare le processioni, portare una persona in processione, simulare la differenza fra un capro espiatorio e i suoi persecutori, consolare il martire, mostrare

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==