~··:.e~: e--~- 1 i' .. -.,\ 'Z_ -- ...::... l BibliotecaGino Bianco Gunther Anders, non accampi scuse. Le sue/avo/e sono certamente anche poe- 17 sia. Non si limiti allapoesia in senso stretto. Lei stesso ha citato i lavori di Nono o di Schonberg in quanto possibili forme d'arte. Con la parola "poesia" Adorno non intende la poesia ma l'arte. Credo di non aver scritto favole su Hiroshima. Non stiamo parlando dello scrivere su. Diciamo: dopo Auschwitz. Adorno ha posto una scelta. Ha affermato che dopo eventi così spaventosi l'arte diventa un trastullo. Questo si dice. E io lo ritengo assurdo, perché naturalmente la Todesfuge di Celan è una poesia importante. No, non lo credo affatto. Credo piuttosto che ce lo abbiano voluto far credere. La sua poesia è servita ai tedeschi come alibi, come mezzo, per "confessare" e "superare" Auschwitz nella forma di una lirica avanguardistica. Todesfuge, ristampata mille volte, non è stata capita da nessuno. Neanche dallo stesso Celan. Mai quella poesia ha davvero avuto un "effetto", mai ha realmente suscitato orrore e angoscia. È inrecitabile. E se tuttavia viene recitata diventa uno scandaloso oggetto d'arte applicata. In questo Adorno aveva dunque ragione. Ciò che intendeva dire era: la serietà della cosiddetta "arte seria", se paragonata a!Ja serietà della situazione in cui viviamo - vale a dire, non solo della situazione che segue una catastrofe ma della situazione di una probabile catastrofe imminente - è una serietà per gioco, una serietà da nòn prendere sul serio. Dunque lei vuole un mondo senza arte? Questa è una conseguenza sbagliata. Parlo in vista della morale, non dell'arte. Dico che il concetto di serietà applicato all'arte, se paragonato alla serietà della nostra situazione, non è un concetto di serietà da prendere sul serio. Non ho affermato niente sulla fine o su una fine dell'arte che è da realizzare, forse nel termine temporale che ci è ancora concesso la questione dell'esistenza dell'arte o della filosofia è irrilevante. Guardi, non sto giocando con pensieri apocalittici. Ma visto che la nostra storia è in mano di gente terribilmente non seria, prendo il pericolo terribilmente sul serio. Di fronte alla catastrofe Lei è davvero totalmente convinto che qualche pazzo farà esplodere la bomba? Sì, ma non un pazzo. Una persona limitata. Uno che è troppo limitato per essere capace di immaginare ciò che potrebbe fare, cioè incapace di immaginarsi il suo illimitato potere di annientamento. La parola "limitato" non indica oggi una limitazione della facoltà di pensare ma della facoltà di immaginare. Se un uomo come Reagan dice per scherzo: "Cinque minuti fa ho impartito l'ordine di attacco atomico", allora è talmente poco serio e limitato che siamo costretti a prenderlo terribilmente sul serio. A questo si aggiunge - e torniamo al punto di partenza della nostra conversazione - che ciò che lei ha chiamato il "pazzo" e "far esplodere una bomba" non saranno ostacolati da nessun meccanismo; proprio perché non si tratta di un vero "fare", di un'azione, ma di una mera "causa" che non avrà alcuna idea del suo effetto finale. Può darsi che l'ultimo "colpevole" sarà un computer guidato da un altro computer. Per provocare qualcosa di folle, i f o/- li in senso medico sono superflui. Quanto più qualcosa può accadere in modo indiretto tanto più è facile e verosimile che accada. Per quanto possa apparire paradossale la mediatezza facilita l'accadere. Anche la distruzione di Hiroshima quaranta anni fa è stata più facile, è potuta andare "più liscia" dell'assassinio di un singolo individuo. Ciò che sta dicendo è agghiacciante e non fa certo venir voglia di andare a teatro. Contemporaneamente chiedo a me stesso - non a lei: contro cosa vogliamo ancora mettere in guardia se siamo convinti che la catastrofe è in arrivo? Che bisogno c'è allora di mettere in guardia? . Sbagliato. Ho sempre affermato - credo anche all'inizio di questa intervista - la necessità, oggi, di un tipo di schizofrenia. Con questo intendo dire che noi, in quanto agenti, non dobbiamo farci influenzare affatto dalle nostre convinzioni disperate. Già le mie Tesi sull'epoca atomica, che dettati ai miei studenti berlinesi al mio ritorno da Hiroshima, si concludevano con le parole: "Se sono disperato - che mi importa!" Questo non è un "Principio speranza". Al massimo un "principio del nonostante". (da "Die Zeit", 22 marzo 1985; traduzione di Stefano Velotti) Copyright Fritz J. Raddatz I985.
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