Linea d'ombra - anno IV - n. 15/16 - ottobre 1986

chio trombone, Pascoli un imbelle piagnucoloso, D'Annunzio un profittatore del regime fascista... Ma Noventa? Non vorrei che le manifestazioni organizzate in questi giorni in sua memoria (in Venezia presso la Fondazione Cini e in quella Noventa di Piave dove Giacomo Ca'Zorzi era nato nel 1898) si dovessero alla presente moda della poesia in dialetto, genere per il quale continuo a provare una motivata diffidenza; spero piuttosto che ad esse abbia offerto intanto occasione la pubblicazione (presso Marsilio Editori e a cura di Franco Manfriani, pp. LXXIII-325) di Versi e poesie, il bel primo volume delle sue opere complete. e precisamente Franco Fortini, mio occasionale compagno di stanza in un asettico ufficio milanese. Non so se il demerito fosse stato (prima) di una pampaloniana mancanza di tempo o di pazienza e amore da parte mia, e il merito (poi) di una fortiniana eloquenza o, più probabilmente personale e diretta aspirazione di poeta a recidere il "nodo" che teneva (Fortini come me e tanti altri) avvinti alla suggestione (una sorta, direi, di viltà del linguaggio) propria della tradizione poetica egemone del nostro Novecento: il non osar dire, il non osar amare, il non osar piangere o ridere che, insomma, la distingue... Sta di fatto, però, che quando Fortini mi •leggeva le più alte poesie di Giacomo, io (balbettante poeta che, nelle parole dello stesso Fortini, sembravo dannato per sempre ad metal/a "nelle miniere abbandonate da Montale") capivo che, proprio in quella lingua di contrabbando e travestita perciò da dialetto, doveva individuarsi la via d'uscita, sia pure tenue rigagnolo o quel che si vuole, che avrebbe potuto ricondurci al mare della "grande poesia". il gusto di pen:orrere un sentiero battuto da pochi; ma se penso a lui, al suo ostinato lavorare su un verso che avrebbe anche potuto aver l'aria di un'improvvisazione conviviale (diciamo anche: "anacreontica", alla maniera di un Puskin), ogni dubbio ben presto si dissolve: egli ridonava alla poesia il coraggio di essere tale, di affermare piuttosto che di negare, di cantare piuttosto che di puntare all'afasia, di essere (se necessario) esposta al ludibrio e non all'onore del mondo. Non credo che sia giusto, per onorare Noventa, assumere un insincero, del resto, atteggiamento di ripulsa nei confronti della linea (impersonata soprattutto da Montale) nei cui confronti maggiormente si esercitò la sua mai spassionata polemica; ma non credo nemmeno che sia improprio affermare o riaffermare ciò che trovo qui scritto in un mio vecchio articolo: "Con facile ironia ci sarà subito qualcuno pronto ad obiettare che le esplorazioni spaziali hanno svuotato d'ogni efficacia questa metafora: ma vorrei dire ugualmente che la poesia di Giacomo Noventa è l'altra faccia della luna della poesia italiana contemporanea". Anche se quasi trent'anni sono passati e dunque qualche nuova esperienza si è manifestata nella evoluzione di questa negletta poesia italiana, io credo di poter riproporre l'affermazione di tanti anni fa; almeno per quanto si riferisce al mio personale lavoro. Senza Noventa, probabilmente, non avrei ravvisato le vie d'uscita (se pur tali saranno state) che ho creduto d'individuare, se non altro come ambizioni, come aspirazioni. Dobbiamo volere il "tutto", o il "molto", comunque; non possiamo (per ricordare qui un epigramma di Fortini a Calvino) accontentarci del "parecchio". Noventa ha richiamato chi a suo tempo degnò d'ascolto le sue nobili parole alla necessità di violare, trasgredire, disturbare l"'abitudine"; non soltanto, ovviamente, in poesia o in letteratura; ma in politica, nella vita civile, nella cultura, in tutto. Ci ha richiamato all'idea della "grandezza", di cui quasi tutto il nostro secolo parve vergognarsi o avere comunGiacomo Noventa (che gli amici più stretti, come Mario Soldati che udii nel pronunciargli l'estremo addio sopra la fossa, chiamavano Gino), veneto di nascita e torinese, in parte, di formazione, non senza esperienza di quell'università "neokantiana" di Marburgo per dove erano passati anche un Lukàcs e un Pastemak, polemico antagonista, anche insieme ad Alberto Carocci, della Firenze ermetica degli anni 30, aveva usato per molti anni comporre a mente le sue poesie, senza preoccuparsi di metterle in scrittura. Per la prima volta si decise a raccoglierle in volume (affettuosamente trascritte dalla moglie Franca) nel 1956 e per un editore di eccezione che si chiamava Adriano Olivetti. Io vivevo allora i miei primi mesi di lavoro in Ivrea e quando Geno Pampaloni mi annunciò l'imminente uscita del libro, sottolineando l'eccezionalità del poeta Noventa rispetto (usiamo ancora la stessa parola) alla restante nomenldatura del patrio Parnaso, io fui piuttosto riluttante a condividere il suo entusiasmo. Leggevo, sl, il poeta Noventa, con la simpatia che si deve a un tenero e raffinato cantore, ma non riuscivo ad intendere quel che intesi uno o due anni dopo, quando a leggermi, o a dirmi, Noventa fu un altro dei miei tanti (troppi!) sofferti interlocutori No' son omo de gran teorie, non sono un acuto critico, non tocca a me dire se la poesia di Giacomo Noventa sia "grande" o meno "grande"; ma posso dire che la parola, appunto, "grandezza" e il senso che ad essa si connette riaffiorano alla mia coscienza proprio attraverso il contatto con la poesia e con la persona stessa di Giacomo Noventa, con o senza i-----------------" mediazione di chicchessia. L'amore e la passione civile, la nostalgia dei luoghi e dei tempi, la presenza ovunque di una persona e di una sofferenza o gioia umana, l'armonia del canto, la disarmatezza della poesia che nulla ambisce d'essere se non la propria disarmata semplicità, erano i temi e i valori che la lezione di Noventa mi riportò e che (ripeto) la sua stessa persona mi portava. A volte mi sfiora il dubbio che l'ammirazione per la poesia di Noventa possa essere in qualcuno un tratto di snobismo, BibliotecaGino Bianco 79

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