Linea d'ombra - anno IV - n. 15/16 - ottobre 1986

DISCUSSIONE FUORDIAUACORNICE Goffredo Fofi Su La realtàsfuggente.Narrazioniitalianedeglianniottanta, il denso e articolato intervento di Luca Clerici e Bruno Falcetto apparso nello scorso numero di "Linea d'ombra", pubblicheremo alcune riflessioni, marginali o centrali. Previste al momento stesso in cui quell'intervento era stato programmato (per un seminario della rivista) le prime, oltre a questa, saranno di F. Brioschi, P. Splendore, A. Berardinelli. Il senso di questo dibattito, comunque piuttosto "interno", è quello di ragionare sulla nostra letteratura attuale non solo in termini di recensioni, ma di quadro d'insieme, linee di tendenza, rapporti tra l'opera singola (o il singolo autore) e "il contesto", sia sociale e antropologico che culturale e letterario, di questi anni. Tempo fa, in una nota intitolata non a caso Ci vorran~o anni, avanzavo previsioni piuttosto negative, di fronte alla fiacchezza e al conformismo epocali e allo sconcerto ( è sconforto) provati di fronte ad ambizioni creative (le "ultime leve", i sotto i 35, e l'esperienza stessa della rivista nei confronti dei giovani autori e degli aspiranti tali) in genere mediocri, fragili, a volte fasulle. La ricostruzione di un tessuto culturale predisponente la crescita di scrittori validi, vi dicevo, era lavoro lento e difficile, forse impossibile. Eppure, sotto molti aspetti, il contributo di questa rivista - certo non da solo - è servito, credo, a riaprire qualche spazio. Se l'editoria è più sensibile ai giovani scrittori, se si ridà così tanta fiducia alla forma del racconto, se si moltiplicano (ed è il caso di dire, spesso, ahinoi!) premi e concorsi letterari per esordienti, opere prime, inediti, è un po' merito anche nostro. L'insoddisfazione bensì ne è accresciuta: i media, nella loro pochezza inventiva e progettuale, sono certo disposti più che mai al "ricupero" (termine post-'68 oggi passato di moda: ché anzi è a quello che si tende, da parte dei giovani artisti, prima ancora di mettersi all'opera}', è una loro necessità vitale specialmente in tempi così privi di vere novità. Il calderone delle notizie culturali si gonfia e trabocca, gli "strilli" si accavalcano e ne risulta una monotona cacofonia, un rumore di fondo dei più artificiosi e fastidiosi. L'onnivora superficialità dei settimanali e delle pagine cui- · turali dei quotidiani (di tutte senza eccezioni) lascia pochissimo spazio a ciò che davvero può dar fastidio o rompere certe croste e logiche sotto-corporative. È naturale quindi che anche le "tempeste" siano organizzate e preventivate, servano solo a vendere come a dar l'illusione di essere ancora vivi e siano sempre in un bicchier d'acqua. Ciò che non è funzionale alla esaltazione dello status quo e alla volgarità dei tempi (e funzionali sono anche quaresimalisti o austeri materialisti, non solo gli esperticoli, i manieristi e i citazionisti, o i nuovi sacerdoti del "chi non mistica" non mastica ciò che non è meramente giorBibliotecaGino Bianco nalistico o accademico (e pressoché tutta la cultura contemporanea è o giornalistica o accademica, nel senso peggiore delle due istituzioni e logiche) è relegato agli estremi margini, se non accetta le regole di un gioco scontato, digerito a tal rapidità nella poltiglia da perdere ogni sapore. E perfino quella della "lotta sui due fronti" (quello della verità e quello della comunicazione, per intenderci) finisce per risultare un'illusione, una fatica ineffettuate e superflua. Se questo è il quadro, e se il più generale contesto lascia ben pochi motivi di entusiasmo, la tentazione dell'abbandono, di uno sdegnoso ripudio isolazionista, si fa forte e frequente, ma darle retta ci sembrerebbe né più né meno che un "castrarsi per far dispetto alla moglie", come fece quel tale del Novellino. Alcuni pochissimi sanno farne scelte serie, moralmente motivate e ineccepibili, ma che non possono convincerci fino in fondo anche se a esse si deve guardare con affetto e attenzione; con amore e rispetto, e succhiandone stimoli e linfa. Non sono bensì le nostre scelte, e sempre di più, anzi, quanto più il "contesto" deprime e spaventa, ci par doverosa la presenza, per riaffermare nel possibile una qualche alterità attiva. Per far sì che la nostra letteratura, la nostra arte abbiano vita forte, occorre sempre di più "parlare d'altro", di ciò che vi sta a monte, senza che questo esima dal considerare attentamente il presente, e in ciò che vi si muove trascegliere, esaminando e discutendo di un'opera il suo interno e pure il suo esterno. Con bell'immagine, Antonio Tabucchi, citato nel saggio di Clerici e Falcetto, dice della narrativa che oggi essa parla del "visibile" solo all'interno di una "cornice", lasciandone fuori troppe cose, cogliendo della realtà i suoi aspetti appunto sfuggenti e dentro una obbligata ambiguità. Obbligata, ché ben difficile è altrimenti. Non ci scandalizza che la realtà possa venire affrontata in modi disparati e con "stili" i più vari, questo è sempre accaduto, anche in tempi più vitali di questi; ci scandalizza, in definitiva, "la realtà" medesima, sfuggente al punto che non sembrino più esistere strumenti e idee-forza per interpretarla, e che dunque non sia "conosciuta" prima che descritta e narrata. Ci scandalizzano il contesto, che produce una letteratura ambigua o solo consolatoria ai livelli di riconoscibilità più bassi, e il disastro del paese, non quello della sua letteratura. Sono personalmente propenso a considerare la nostra letteratura migliore del nostro paese. Ho sostenuto altrove che i lettori non sono migliori degli scrittori; ma su questo insisto: esistono Biagi e Arbore, Scalfari e Barbiellini Amidei, così come i romanzieri bestselleristi, perché il pubblico li vuole e in essi si identifica. E poco conta che sempre siano moralmente più responsabili gli scrittori che i lettori: se c'è una domanda c'è un'offerta. Se dunque abbiamo, per fare degli esempi, dei Tabucchi e dei Celati e dei Del Giudice, che operano per lettori comunque di minoranza, e con sensibilità notevole rispetto al-

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