spalle rigide, le cosce contratte per controllare il tremito delle gambe. Poi la sua bocca articolò in un soffio: "Te". Allora l'uomo piegò leggermente la testa da un lato e l'ombra di un sorriso gli passò negli occhi. Gli si accostò. Frank stava ancora lì, irrigidito, lo sguardo fisso sulle tasche del cappotto dell'uomo. Senti la voce grave dire dolcemente: "Adesso sto andando a lavorare. Se vuoi, chiamami." Allora le mani uscirono fuori dalle tasche. Una teneva un macchetto di Camels stropicciato e l'altra un mozzicone di matita che vi spariva dentro quasi del tutto. L'uomo si mise tra le labbra l'ultima sigaretta storta e stracciò il pacchetto. Si accovacciò, lisciò la carta sulla coscia e scrisse con impegno sul rovescio del pacchetto: BOBY - PRONE: 212. 694.37 .65. Si raddrizzò e gli tese il pezzo di carta. Frank:lo prese, sollevò lo sguardo e intravide il bagliore dei denti e la piega di un sorriso, subito riassorbiti dalla maschera di impassibilità. Boby gli voltò bruscamente le spalle e si allontanò a grandi passi. La domenica mattina, Frank si decise a chiamarlo. Al telefono dovet,te farsi riconoscere. "Sai quel tale, due giorni fa, nel metrò." Un attimo di esitazione, poi Boby gli rispose che era libero nel pomeriggio e che lo aspettasse all'imbarcadero di Centrai Park verso le quattro. Frank:riattaccò. Aveva fame. Erano le undici e mezzo e il loft era deserto. Con un asciugamano intorno ai fianchi, andò a frugare in cucina. A parte un mezzo cetriolo e del pan carrè raffermo, il frigorifero era vuoto. Sul tavolo un pacchetto di cereali, anch'esso vuoto, e una mela. Frank andò in bagno, si lavò i denti e si scottò sotto la doccia che non riusciva mai a regolare al punto giusto. Poi tornò in camera sua. Attraverso la vetrata che tagliava in lastre luminose un intero lato del loft, non si vedeva che un pezzo di tetto coperto di neve, una grande ala di muro grigio e un rettangolo di cielo limpido, blu. I termosifoni bollenti gorgogliavano e sibilavano; e sui vetri c'erano fiori di ghiaccio. Frank: si coprl bene, afferrò al volo la mela sul tavolo e percorse, metà correndo e metà scivolando, i venti metri di parquet lucidato a cera che lo separavano dalla porta d'ingresso. Uscì sbattendo la porta, trafficò con la griglia pieghevole del montacarichi che, cigolando e traballando, lo depositò poco dopo sul bordo della Diciottesima Strada. La via era stata sgombrata e la neve ammonticchiata tra le vetture, lungo il marciapiede, in cumuli sporchi e lucenti. Camminò fino a UniÒnSquare, poi, senza cambiare marciapiede, girò a destra, evitò due o tre barboni che chiedevano l'elemosina ed entrò da Charlie, il self dove faceva spesso colazione. Il grosso cuoco messicano, che sudava davanti alla piastra rovente, girò la testa e gli chiese: "Il solito?" Frank fece cenno di sl e aspettò, apparecchiando il suo vassoio con una tovaglietta, un tovagliolo di carta e posate di alluminio. Poco dopo comparvero sul banco un piatto di uova strapazzate, un altro di purè, un minuscolo succo d'arancia e un caffè abbondante, entrambi in bicchieri di plastica bianca. Pagò alla cassa un dollaro e novanta cinque c~nts e andò a sedersi con il vassoio a BibliotecaGino Bianco STORIE/KAHN un tavolo di formica in fondo alla sala. Bevve d'un sorso il succo d'arancia, agitò la bottiglia di ketchup, depositò un piccolo lago di sangue sul piatto e si mise a mangiare lentamente il purè e le uova. Si accese una sigaretta prima di passare al caffè. Mise quattro zollette di zucchero e due bustine di latte in polvere nel liquido, mescolò il tutto meticolosamente con un bastoncino e bevve a piccoli sorsi. Era caldo, molto dolce, con un gusto insipido, contaminato dalla plastica del bicchiere. Accese una seconda sigaretta e intanto si domandava perché mai avesse chiamato Boby: il sorriso degli occhi, senza dubbio, e anche quelle mani che non aveva potuto vedere bene quando, all'improvviso, Boby le aveva tirate fuori dalle tasche per scrivere. Ma quello che gli si imponeva con violenza era l'immagine di quel corpo scuro, il desiderio di toccare quel corpo cosl grande, il più grande che egli avesse mai avuto l'occasione di avvicinare. Uscì, abbagliato dal sole sulla neve sporca. Risali molto lentamente verso Madison Square, poi costeggiò la Quinta Avenue fino a Centrai Park. Davanti all'entrata si fermò a una decina di passi da un gruppo di giovani che danzavano attorno a un enorme transistor appoggiato per terra su un giornale. La musica, benché a tutto volume, non aveva risalto, attutita, quasi assorbita dalla neve porosa, e la luce violenta rendeva ancora più sottili le silhouettes angolose dei danzatori. Da qualche momento, Frank: seguiva le evoluzioni di uno di loro, attratto forse dalla tigre gialla ricamata sul giubbotto o forse dallo strano modo che aveva di rompere il filo fluido dei suoi movimenti con un brusco ancheggiamento che lo faceva ruotare sui talloni. Quando se ne accorse, era troppo tardi: già l'altro gli si stava avvicinando, marcando il ritmo con la nuca e con le spalle. Doveva essere un portoricano e avere non più di sedici anni. I suoi occhi erano cosl ravvicinati che le sopracciglia sbarravano con una sola riga nera il viso triangolare. Arrivato alla sua altezza, senza rivolgergli il minimo sguardo, bisbigliò tra i denti: "Voi del fumo, della neve?" Frank sentl la schiena irrigidirsi. Girp appena la testa dall'altra parte e, sempre seguendo con la coda dell'occhio i movimenti dello spacciatore, si allontanò senza fretta, come se non avesse udito nulla. Nel parco, tutto era bianco e nero. I viali asfaltati, i rami nudi e i cespugli mettevano delle macchie, delle colature d'inchiostro sul vasto campo di neve. Tutto attorno, oltre i tralicci degli alberi che incidevano d'ombra questa ferita vuota nel centro di Manhattan, gli edifici ergevano una lunga muraglia grigia frastagliata di merlature irregolari. Frank camminò lungo il grande prato attorno al quale facevano i loro giri, sudando e sputando, gli abituali corridori di jogging, aureolati di vapore. Passò in mezzo alle sedie di ferro davanti all'auditorium deserto, e discese le scale che conducono al lago attraverso una galleria scavata sotto una delle strade trasversali del parco. Uscendo da questa penombra sudicia e fetida d'urina, lo spazio era abbagliante: la spianata, la fontana gelata con il suo angelo di bronzo, il lago bianco, gli alberi e le rocce grigi della collina del Belvedere, la cupola blu e vuota del cielo. Si avvicinò alla 45
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