padre che aveva un figlio di asserito genio musicale di cui aveva affidato lo sviluppo a Mr. Simmons, talché si poteva dedurre che se era bravo abbastanza per quel ragazzo doveva essere abbastanza bravo per me; anche di me si diceva che ero particolarmente dotata, per quanto non proprio all'altezza di un genio. Mi parve un gesto di grande apertura mentale che i miei genitori assumessero per la loro figlia quasi giovanetta un insegnante nero; dovevo avere intravisto da qualche parte, nel gran paesaggio di tutto ciò che ancora dovevo imparare, le sorgenti della paura. Ero fiera dei miei genitori anche se non lo dicevo mai. Avevo sempre saputo che non erano dei fanatici bensì, per istinto, piuttosto decenti; e avevo sempre saputo che nella concretezza di una sollecitazione personale avrebbero istintivamente praticato ciò che veniva a quel tempo definito "tolleranza"., anche se non sapevo fino a che punto. Come tutti i figli li sottovalutavo e ciò era dovuto in parte al fatto che proprio in quel periodo stavo scoprendo la loro appartenenza al ceto medio. Mr. Simmons era un uomo di pelle scura, altezza modesta e modesta corporatura, con una barba difficile che, vista l'estrema cura che dedicava alla sua persona, deve essergli stata una gran seccatura anche se era sempre ben rasato. Insegnante in una scuola pubblica, sposato, padre di due bambini, vestiva nello stile d'allora, giacca e cravatta, con impeccabile convenzionalità. E anche le sue maniere erano impeccabilmente convenzionali. Un brav'uomo, ma un mattone, così lo definii al primo incontro, e da come si presentava dedussi che la sua principale caratteristica fosse la moderazione in ogni cosa. Mi sbagliavo: Mr. Simmons era con tutta consapevolezza un romantico. Il suo modo d'insegnare era grave, intenso, ravvivato da deliziosi lampi di giocosità. Aveva un largo sorriso, grandi denti, una risata fragorosa e una gran disponibilità all'allegria, specialmente se ero io a comunicargliela. In quanto a me, scoprire di essere divertente mi fu d'ispirazione. Riservavo a Mr. Simmons la mia migliore fraseologia e degli atteggiamenti sofisticati che mi pareva fossero, altrove, come perle davanti ai porci. Dopo tutto, non era tanto un mattone se era capace di apprezzarmi. E tuttavia, a differenza dei miei precedenti insegnanti, sapeva esclamare "Terribile!" con la stessa veemenza con cui esclamava "Bellissimo!". E con voce sofferente: "No, no, no" diceva, "è così che lo voglio sentire", spingendomi via dal panchetto del pianoforte e lanciandosi sul brano. lo mi offendevo facilmente e dapprima scambiai per immodestia la sua rude franchezza. Ma a poco a poco imparai da Mr. Simmons che la falsa modestia non serve a niente e che la vera dedizione alla professionalità è un fatto impersonale. Ci conoscevamo da poco quando mi raccontò che in estate, durante le vacanze scolastiche, il suo grande piacere era suonare il pianoforte otto ore di seguito, a torso nudo, tutto sudato. Quando me lo disse era il mese di gennaio e abbozzò un BibliotecaGino Bianco STORIE/SCHWARTZ sorriso, in una specie di paziente aspettativa, nella quale riconobbi l'immagine della passione e dell'impegno totale: da allora me lo raffigurai sempre circondato da una salda e luminosa aura di fervore. Desideravo essere uno dei suoi figli, per la gloria di vivere nella sua casa, contemplare quella immagine in carne ed ossa, e bearmi nella sua musica lussureggiante. Avrebbe suonato Brahms, naturalmente; mi aveva detto sin dall'inizio che era il suo compositore preferito. "Ah, Brahms" avrebbe sospirato, inclinandosi all'indietro sul panchetto e dondolando la testa con aria sognante. Io non condividevo il suo amore per Brahms e tuttavia Brahms stava proprio bene nell'interezza del quadro: la giornata afosa, le lunghe ore, il petto nudo, il sudore. Mr. Sirnmons aveva mani enormi, e bellissime, da pianista, che mi facevano vergognare delle mie, piccole e tozze. Con un gesto tragicomico mi sollevava una mano dalla tastiera, la fissava con rammarico: "Ah, se soltanto fossero un po' più grandi!". Scherzava, ma diceva la verità. Suonava bene, seppure con uno stile un po' troppo romantico per il mio gusto. Naturalmente, i miei gusti egli li conosceva bene e qualche volta esagerava il suo modo di suonare per stuzzicarmi ed esagerava anche il dondolio avanti e indietro mentre canticchiava con la musica, o ostentatamente si curvava su una frase delicata, o rumoreggiava in un passaggio turbolento, il busto teso come gonfio di musica. "È troppo schmaltzy per te, non è vero?" e rideva fragorosamente. Trovavo molto divertente il suo modo di pronunziare schmaltzy, una parola nostra, yiddish, per sentimentale, non sua. Per ammonirmi quando ero svogliata mi diceva: "Suona le note! suonale!", una sollecitazione che per diverso tempo non riuscii a capire e che compresi gradualmente mentre lo ascoltavo suonare. Voleva dirmi che le note non dovevo toccarle soltanto, dovevo infondergli il suono. "Devi andarci dentro, fare contatto. Dare alle note il loro pieno valore. Dar loro te stessa". ~erme era del tutto naturale che Mr. Simmons e io dol.llvessimo diventare amici e stimarci a vicenda, dato che facevamo parte di una vaga, imprecisata élite: ma fui sorpresa e persino un po' irritata dalla stima che i miei genitori gli dimostravano. Mia madre era stata sempre molto corretta con gli insegnanti che erano venuti a farmi lezione in casa, offrendo loro biscotti e caffè, ma senza nessuna apertura alle confidenze. A proposito di uno di loro, un musicista dalle sopracciglia a cespuglio, soprabito e baschetto neri, sciarpe svolazzanti e un fasullo accento europeo, il quale sosteneva di provenire dalla Columbia University come se questa fosse il suo luogo di nascita, mia madre osservava che invero egli poteva definirsi un artista però era anche uno sporcaccione, capace di mangiarsi un'intera torta e seminare le briciole sulla tappezzeria frangiata 31
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