BibliotecaGino Bianco PERUNGIUDIZIO SULL'ATTUALE ROMANZOITALIAN Vincenzo Consolo Il giudizio sull'attuale romanzo italiano deriva dalla concezione che abbiamo dello scrivere, dello scrivere romanzi e racconti: del narrare. Concezione semplicistica, manichea, partigiana (quindi anche un po' stolta). È questa: ci si dispone a scrivere, a lanciare il disco da due zone, da due cerchi diversi: dal cerchio dell'assoluto e dal cerchio del relativo. Supponendo, da una parte, lo scrittore, solo ed eretto contro il Tempo e lo Spazio, d'esser destinato e capace a/di far giungere il greve e spento metallo ad incommensurabili altezze, e lì, stella fra le stelle, farlo risplendere nel cielo in eterno. Dall'altra, supponendo d'essere, lo scrittore, uno fra gli uomini, d'un determinato tempo e d'un determinato spazio, d'una storia e d'una società transeunti, nella coscienza della forza di gravità della terra e della metallica gravosità della prosa, solo capace di brevi lanci, di relativa misura, rapportabile ad altre (ad altro). Ma lasciamo questa levigata metafora discobolea, lasciamo la fissità e il mutismo della statua mironiana e ascoltiamo le parole d'una persona viva, d'uno scrittore: "Noi scriviamo perché siamo imperfetti, relativi, mortali, ossia perché aspiriamo alla perfezione, all'assoluto, all'immortalità. Dio non scrive romanzi" (Ernesto Sàbato). Diciamo qui subito, per inciso - e spiegheremo sotto il perché - che è vero, Dio non scrive romanzi, ma potrebbe benissimo scriverli: romanzi esistenziali, lirici, poetici, in una lingua inintelligibile, sonora, musicale, che si perde, si annulla nel silenzio (forse il silenzio di Dio è il vero romanzo di Dio): romanzi assoluti, che non sono più romanzi, che trascendono il genere, che sono espressione istantanea, narrazione senza svolgimento, senza tempo, senza metafora e senza significato; che sono borbottio, afflato, respiro (quando soffiò esageratamente sulla creta e prese vita, ahinoi, il povero Adamo, forse voleva solo scrivere un romanzo). Ernesto Sàbato dice ancora: "Il romanzo, la finzione è un elaborato complesso, un misto di pensiero logico e di pensiero magico, qualcosa di più intenso del mero discorso razionale". Vogliamo ora assumere quanto afferma Sàbato e usarlo, magari parodiandolo, per quello che vogliamo dimostrare. 1) Quel misto di logico e di magico che è nel romanzo noi lo chiamiamo misto descrizione e di narrazione, di significato e di significante, di struttura e di ornamento, di prosa e di poesia, di comunicazione e di espressione, eccetera. 2) Dal momento che il romanzo parte sempre dal pensiero logico, dalla struttura, dalla prosa, dalla comunicazine, noi crediamo che immediatamente esso debba rivolgersi agli altri e parlare degli altri; degli altri del contesto storico e sociale in cui il romanziere si trova a vivere e scrivere. Il romanzo è insomma, proprio perché romanzo, immediatamente storico e sociale (sappiamo - lo abbiamo già detto - che questa è un'affermazione azzardata, perentoria e partigiana). 3) Dal momento che il romanzo, per sua natura, è storico e sociale, è immediatamente critico, oppositivo. Riguardo a chi, a che cosa? Ma riguardo a chi ha la responsabilità della condizione storica e sociale degli uomini, riguardo al potere. Anche in una ipotetica società perfetta, anche in un leibniziano "migliore dei mondi possibili", il romanzo dovrebbe essere sempre critico e oppositivo, dovrebbe sempre avere la metafora e l'ironia dirompente di un Candido. Non è per caso che il romanzo, il romanzo moderno nasce con la borghesia, che ad essa è rivolto, da essa è consumato (prima vi era la poesia, il poema, la letteratura della corte, delle accademie istituite dal re per farsi elogiare e propagandare). 4) In questo modo dunque noi vogliamo parodiare o correggere l'assioma di Sàbato: "Noi scriviamo (romanzi) perché la società è imperfetta, diseguale, ingiusta, ossia perché desideriamo l'armonia sociale, l'uguaglianza, la giustizia, la felicità sociale (almeno questa, impossibile com'è la felicità esistenziale). Il re (Dio) non scrive roman-
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