Linea d'ombra - anno IV - n. 15/16 - ottobre 1986

neamenti paradigmatici tan.to brillantemente posti in evidenza a pagina diciotto. Si aggiunga che sotto il profilo più propriamente stilistico, tale prospezione psicologica resta quasi sempre affidata a un monologo diretto virgolettato, da romanzo popolare dell'ottocento; fitto oltretutto in maniera irritante di proposizioni interrogative a carattere retorico, che faticosamente conducono innanzi i pensieri del sensibile granduca. Come dire che Pazzi, dopo aver estratto dall'armadio tutto il repertorio più datato del decadentismo europeo, dalla malattia come dimensione esistenziale all'inettitudine vitale, dal tramonto di una civiltà alla crisi dei ruoli e dell'identità, dal simbolico al fiabesco all'onirismo surreale - dopo tutto ciò, si è dimenticato l'impiego dell'indiretto libero, che di una tale congerie tematica rappresenta pur sempre l'artificio discorsivo più aderente e proficuo. Se nella prima parte del romanzo domina dunque la stasi, la seconda si presenta densa di effetti coloristici sin troppo fantasmagorici. Già un certo sconcerto (estetico) aveva destato la carrozza volante con cui Elena, in non più di venti righe, tra "uno sciame di api d'oro", era stata deposta settantacinque anni più avanti di fronte alla residenza californiana di Reagan. Ma poi è il turno del suo infelice innamorato, che sotto la guida del fedele Ourousov, mefistofelicamente trasformatosi nello "spirito del maligno", intraprende una vera e propria trasmigrazione nei secoli alla ricerca degli imperatori perduti. Solo che Pazzi non è Bulgakov. E proprio mentre profonde tutte le sue energie fiabesche e surreali, si ha la sensazione di un controllo assolutamente insufficiente sulle pulsioni fantastiche che lo agitano. Gli effetti sul piano della scrittura sono non di rado curiosi: il lettore vi potrà riconoscere brevi scenette da farsa grottesca accanto a passaggi di vera comicità involontaria. È il caso del dialogo tra Ourousov e il segretario vaticano Consalvi, quando all'allibito prelato il demone spiega che Giorgio "non può parlare perché non è ancora nato, ma capisce benissimo il francese". Oppure quando sul finire del romanzo, "sbagliando alterraggio nel tempo", il granduca si trova proiettato in piena epoca staliniana. Qui ripercorre i saloni del proprio palazzo ora riutilizzato come pubblico ufficio dell'anagrafe, e non perde l'occasione - non si capisce secondo quale necessità narrativa - di richiedere irritato a un macchiettistico funzionario bolscevico il proprio certificato di morte. Certo, nelle intenzioni dell'autore, a risollevare le sorti di un tessuto discorsivo cosl scompaginato dovrebbe intervenire la potenza riomologatrice della funzione simbolica. Tramite essa il testo avrebbe cioè modo di assurgere al rango di grande parabola metafisico-esistenziale, ricostruendo sulla negazione della storia il doloroso rimpianto per una perduta identità. Ma proprio qui sta il punto dolente: nonostante le pretese, Pazzi non sa andare oltre l'accumulo di simboli stucchevoli quanto scolastici, e oltretutto sempre spiegati, con un compiacimento estatico gratuitamente dilatato. Purtroppo, al lettore non è sicuramente sufficiente chiarire con ingenua saccenteria che "l'aquila" sta per la nozione di impero. Né basta presentare Breznev sotto forma di orco orribile "dai sopraccigli neri e folti come una barba", per dare unità estetica e risonanza semantica al testo. A chi chiedesse a questo punto cosa resti del romanzo, la risposta non può essere che recisa: resta un'ideologia, né più né meno. Una tarda apologia letteraria dell'ancien regime, in cui l'assolutismo torna ad essere candidamente rivestito delle false spoglie di una profonda naturalità sacrale. Risulterebbe oltremodo comodo impiegare la psicologia positiva, e illustrare tutta l'operazione in quanto regressione fantastico-sublimativa a un infantile senso di onnipotenza frustrato, in un autore che si diletta con gli imperi cosl come meglio ci si potrebbe divertire in una partita a Risiko. Rimane ben fermo il fatto che è tutta finta la Russia che si dispiega nelle sue pagine (ma poeticamente finta), costellata com'è di personaggi rigidi e irreali come statuette di cera. O che quando accendono un minimo di interesse è grazie a quel residuo fascinatorio che proprio la storia, per quanto negata e bistrattata, ha conferito loro. BibliotecaGino Bianco SCHEDE/TERRAGNI Unicamente cosl si reggono all'interno de La principessa e il drago le trasposizioni immaginative di Napoleone, di Caterina II, di Luigi XVI. Ai loro servi di altri secoli è in ogni caso più utile indirizzare le ossessive ricorrenze di chi spiega con patetico snobismo che "c'è un solo Imperatore, ma ha tante facce. Qui è lo Zar, là il Figlio del Cielo, in Francia Napoleone: inchinarsi davanti a uno è inchinarsi davanti a tutti". E che le maiuscole valgano pure come commento finale. SAGGI PERCHISOFFIANOI VENTI Fabio Terragni Voi glorificate la natura e meditate su di essa: perché non domarla e regolarla? Voi vi inchinate alle cose e vi meravigliate di esse, perché non usate la vostra abilità per trasformarle? L'invito rivolto da Hsun Tzu, pensatore radicale cinese del III secolo, ai suoi "connazionali" reagiva all'idea confucia113

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