Linea d'ombra - anno IV - n. 15/16 - ottobre 1986

112 SCHEDE/PISCHEDDA don Ximene (p. 107); "tonti, e armati l'uno contro l'altro come granchi in una cesta... Bandidos feroci e coraggiosi, ma quale gatto selvatico non è feroce e coraggioso? Gatti, pecore, qualche lupo, ma cristiani di senno non ve n'è uno... Un sardo è meno di un mussulmano... L'infedele fa di conto, scrive, edifica imperi ... Cosa sa fare, un sardo?" Il bandito Itzoccor, l'irriducibile di antica stirpe montana o di chissà quale barbarico lignaggio sa egli stesso di non essere ciò che dovrebbe, e cioè all'altezza (p. 95): "Un giorno sulla strada di Locoe un istrangiu mi fu consegnato nelle mani: lo guardai, non era un guerriero, era un mercante. I suoi occhi erano giusti. Chiese pietà in nome del Signore. Finsi di non comprendere la sua lingua. / Lo decapitai. I Non basta. Mi aggirai per il mondo seminando terrore, lupo pronto ad azzannare. Come può essere giudice chi non sa giudicare e governare se stesso mentre agisce?" Dopo che la gran croce nera apre la processione fuori delle mura contro pibitziri, e ne è sconfitta; dopo che don Ximene muore e l'inquisitore sopravvive; dopo che dieci, cinquanta personaggi hanno rapidamente consumato la loro compromissione o la loro fuga (prima tra tutte la serva Juanita, in una delle più belle pagine del romanzo)- il prigioniero ltzoccor che sopravvive grazie ai topi che uccide e mangia nella buia segreta in cui è chiuso e grazie al gioco mentale dello shah (gli scacchi a cui ha vinto il viceré) propone al nuovo prigioniero All figlio di Alì, un istrangiu, un mussulmano, un duello mortale che darà la possibilità, a chi vince, di divorare l'altro e acquisire le forze per la fuga. Non si dice chi vince, anche se forse, attualizzando l'apologo del bandito che non fu buon giudice, si può anche pensare, oggi, a un Terzo Mondo meno barbarico di quanto non si voglia, mentre, dal dentro e dall'ignoto, cavallette assediano la città in cui viviamo, e prima o poi vi entreranno, vi sono già entrate. La modernità annunciata dall'anno di Colombo è questa, fatta di nuovi e più tremendi orrori. La visione della storia che questa metafora immaginifica e violenta ci prospetta non riguarda solo il passato, BibliotecaGino Bianco riguarda tutta la storia, e anche l'oggi e il domani,. dicibile e immaginabile solo con empito millenaristico, apocalittico. Con l'Apologo del principe bandito Atreri osa molto e, quasi miracolosamente, tra un trabocchetto e l'altro, su un continuo filo di rasoio, il testo non cade e non cede, cresce con fiato sicuro e, con sgomento dell'autore e nostro, non conclude. TUTTIGLIIMPERATORI Bruno Pischedda Che lo scrittore Roberto Pazzi abbia originariamente impiegato le proprie energie creative in campo poetico, è cosa agilmente riscontrabile nella sua seconda opera narrativa, lA principessa e il drago (Garzanti, 1986). Qui, più ancora che nel precedente romanzo, risulta cioè palese come sia un'intuizione di tipo essenzialmente lirico a stimolare la sua scrittura. E il luogo, letterariamente molto connotato, da cui essa ha potuto generarsi, è lui stesso a dichiararlo nella breve "premessa" apposta al testo. Del granduca Giorgio Alexandrovich Romanov, dice Pazzi, "ho trovato un vago accenno in un passo de Il rumore del tempo di Osip Mandel'stam". In verità non si tratta di uno spunto poi tanto "vago", se si considera che la produzione del nostro autore denuncia più di un semplice interessamento per I dodici di Blok (J. Annenkov, /9/8). quel nucleo poetico, cosl drammaticamente presente al grande lirico acmeista russo, di ripulsa esistenziale nei confronti della svolta storica novecentesca. In quanto motivo portante del romanzo, è in ogni caso ciò che ha spinto Pazzi a cercare di valorizzare emblematicamente, e da un punto di vista fantastico, la vicenda di Giorgio Romanov, scomparso prematuramente nel 1899 ma "ben protetto dalla barriera del suo secolo". Se questo è il testo nel suo aspetto generativo, occorre tuttavia chiarire che per la seconda volta lo scrittore ferrarese si è mostrato carente di una attrezzatura discorsiva in grado di articolare in modo convincente la rappresentazione, peraltro già piuttosto esile sotto il profilo progettuale. Il giovane granduca, malato di tisi e conscio dell'approssimarsi della morte, consuma le sue giornate tra il sonno e il ricordo. Dopo essersi bruciato incautamente ogni possibilità di sostenere il racconto dal punto di vista degli eventi, se non proprio dell'intreccio, Pazzi tenta quindi di interessarsene tutta la prima parte con analessi memorative. In tal modo ciò che risulta sulla pagina è unicamente l'ipertrofia introspettiva del protagonista. Dove proprio i ripetuti salti cronologici, che dovrebbero sostanziarne emotivamente l'immagine, risultano giustapposti in assenza di variazioni tonali, rimandando a stati d'animo pressoché identici tra loro. D'altra parte il personaggio di Giorgio, non senza un pizzico di sapienza costruttiva, era stato presentato per via indiretta ad apertura di romanzo dalle parole di papa Leone Xlii, cui era stato chiesto un parere sull'opportunità di elevare il granduca al rango di sovrano di uno stato polacco indipendente dall'impero zarista. Senonché, sua santità aveva sl posto nel "prologo" i tratti iniziali del protagonista, ma con un'autorevolezza definitoria dal sapore già conclusivo: i polacchi, spiega, non avrebbero sapuro capire "un Re cosl intelligente, cosl acuto e disincantato eppure acceso da un idealismo tragico". Tutto il prosieguo del romanzo finisce pertanto col confermare descrittivamente, senza possibilità trasformative, e deprimendo ogni sistema d'attese, quei li-

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