Linea d'ombra - anno IV - n. 15/16 - ottobre 1986

110 SCHEDE/LA PORTA d'inverno, mentre Un re in ascolto ci riporta ad atmosfere meditative e sospese alla Palomar e Sotto il sole giaguaro richiama - seppure su un registro di narratività più corposa - il clima dei resoconti di viaggi che chiudono Collezione di sabbia. Forse il libro che oggi abbiamo tra le mani era destinato ad essere soltanto un lavoro di transizione, ma è difficile, al termine della lettura, rimuovere il disagio che ci proviene dal sapere che si tratta di un'opera incompiuta. Un'opera dunque che, una volta terminata, avrebbe potuto avere un aspetto ben diverso. A ricordarci quanto sia delicata l'operazione di pubblicare gli inediti di uno scrittore, e tanto più quando si tratti di uno scrittore come Calvino per il quale il non finito era quanto di più lontano si potesse immaginare dal proprio gusto e sensibilità. LASCRITTURAELAPAURA Filippo La Porta Il primo romanzo del trentenne Marco Lodoli, Diario di un millennio che fugge (fheoria, pp. 248, L. 18.000) colpisce per la sua insolita intensità, cui sono estranei il vacuo sentimentalismo e la leggerezza mondana di tanta recente narrativa. Dimostra, tra l'altro, la verità di un teorema letterario spesso dimenticato: l'acquisizione di uno stile personale dipende soprattutto dal fatto di avere qualcosa da dire, da un'urgenza, da una necessità. È proprio questo a catturare l'attenzione del lettore, prima ancora della costruzione narrativa, dello sviluppo dell'intreccio, dei meccanismi retorici (anzi il romanzo ci sembra riveli un'intenzionalità antiretorica, per il suo procedere irregolare, affollato di figure, storie, digressioni). Il protagonista scrive il suo diario su un'isoletta dell'Atlantico, "un borgo posato sulle acque, quasi da esse generato", abitato da "gente di una schiatta imprecisabile", silenziosa e vagamente ostile. Da questo desolato e precario punto di osservazione la registrazione dei fatti si muove su due diversi piani temporali BibliotecaGino Bianco (cui corrispondono alternativamente i brevi capitoli). Da una parte quello che avviene nell'isola, nel presente, e dunque la vita quotidiana con Clo, bellissima sordomuta, vierge toujours, inafferrabile e "murata viva in se stessa", e la coppia presso cui alloggiano (che poi scopriamo essere fratello e sorella). Dall'altra il rapporto con suo padre, solitario, irrequieto, votato al fallimento nei suoi caparbi e maniacali tentativi di far fruttare la terra; con l'amico amato-odiato Fernando, altra figura di perdente, deciso a combattere il male con il male stesso, avido di spremere la vita fino in fondo; con la moglie Serena, una "povera donna di trent'anni", nevrotica e irruenta, ma priva di vero calore, che lui lascerà morire dopo un'agonia; e infine altre figure minori, contadini, donne, braccianti, animali. Nelle ultime pagine la vicenda precipita: vediamo il protagonista fuggire con Clo, in una corsa insensata, senza meta, inseguiti dall'amico Fernando, anche lui innamorato della donna. Si ritrovano tutti e tre, quasi per caso, dopo questo "falso movimento", e insieme tornano a Parigi. Il diario verrà ripreso 17 anni dopo. Siamo nella notte che schiude il duemila. Lui è di nuovo sull'isola. Ha adottato la figlia della coppia che lo aveva precedentemente ospitato, una bambina ritardata, abbandonata dai genitori. Fernando è con loro. Insieme si apprestano a festeggiare la fine del millennio mangiando e brindando con champagne. Come si vede il romanzo stringe diversi temi presenti nella cultura, giovanile e non solo, di questi anni: solitudine, viaggio, strategie di sopravvivenza, impossibilità dell'amore a esprimersi, conflitti deJl'amicizia, senso del negativo e insieme fiducia nel nuovo millennio. Un romanzo "esistenziale" molto più che generazionale: il protagonista si lascia vivere, come se un diaframma lo separasse dalla realtà; quando agisce lo fa senza vera motivazione (pensa di guardare la fine del millennio da una finestra). Proprio per questo diventa quasi invulnerabile, o finge di esserlo. È stato detto che la carta vincente di Lodoli è la scrittura di contro all'ideologia, che sarebbe amorfa e nichilista, e perfino di contro a certa presunta incosistenza del romanzo nel suo insieme. Ora, se in queste pagine c'è anche qualcosa di convenzionale, di troppo "letterario" (come il personaggio vitalista di Fernando), ci sembra che la peculiarità dello scrittore consista nel non limi tarsi a rappresentare la realtà (e il "male"), ma nel cercare con passione delle vie di salvezza, delle forme di resistenza, seppure provvisorie, al "male". La scrittura da sola non potrebbe salvarci. Un lettore appassionato di Céline come. è Lodo li, sa bene che la parola può essere momentanea allucinazione, visione febbrile, rito magico ed esorcistico, ma in ultima istanza è un palliativo, qualcosa di vano, di inadeguato ("tanto più grande e più infima è l'esistenza rispetto al pensiero"). La prosa di questo romanzo ha un timbro 'molto personale, sia nelle pagine più aspre che in quelle di abbandono lirico: "E se le nostre pupille casualmente si incrociano e per un attimo si stringono, sono sempre le mie a cedere e a distogliersi, e non per pudicizia, ma perché nulla mi dispiace di più dell'improvviso perdersi dei suoi occhi quando si allontanano dai miei e vanno dove non so più seguirli". La misura, l'autocontrollo non diventano mai ascetici, non rinunciano all'uso frequente di metafore, similitudini, - immagini piene: "il frastuono delle onde si riduce a un fruscio leggero, a un addio appena bisbigliato". Due tra gli autori più amati da Lodoli, Céline e Tozzi, producono come un singolare corto circuito: dentro un tono narrativo severo, trattenuto, il linguaggio vortica e spazia liberamente, si svolge e si riavvolge. Il merito di questo libro non è tanto quello di farsi portavoce dell'attuale mentalità della sopravvivenza (come ci avverte il risvolto di copertina) ma di inviarci un messaggio disincantato eppure non disperato. La "paura di vivere" del protagonista, la sua visione che potremmo definire per alcuni aspetti "gnostica" (la vita, dunque la creazione stessa, come male ingiustificabile), la consapevolezza che non ci appartiene nulla (nemmeno i nostri pensieri), tutto questo non si traduce in c1msmo e in indifferentismo morale. L'accettazione della vita, che comunque

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==