quando si aprono i teloni di fondo, e ritornano, col carnevale, le banalità di un moralismo insicuro perché complice, e la presunzione del quadro globale, della "grande riflessione". LAMESSANONFINISCEMAI Goffredo Fofi Potrebbe essere curioso indagare le ragioni della risonanza di questo film, tutte, in definitiva, "contenutistiche". La forma infatti vi è sciatta, dimostra le carenze di Moretti già avvertite nei film precedenti: assenza di scelta in una regia priva di polso; casualità dei movimenti e delle inquadrature (e se è vero, come dicevano i classici, che un regista si vede da dove scena per scena mette la macchina, Moretti non è un regista); pessima direzione degli attori (tutti ebeti, meno la Lozano e De Vico per forza autonoma), e invadenza del protagonista onnipresente, e tutt'altro che dotato di finezze interpretative; fotografia di neutrale indefinizione; tensioni slabbrate, in una costruzione per accumulo tipica dell'autore ma in cui, ora, i brevi capitoli non risultano più autosufficienti. Eppure il film piace e in qualche modo "funziona", ha un suo respiro a tratti intrigante. E impressiona favorevolmente il suo rispetto per la materia - "per la veste che porta" l'autore nel film. La "religiosità" è tuttavia di superficie, non mette in discussione nessun problema di fondo né scalfisce alcunchè di "socialmente rilevante". Lo si potrebbe prendere per un film sulla "crisi della coppia" e le miserie del "riflusso", ma non basterebbe ancora a spiegare: film del genere ce ne sono stati a dozzine, e più interessanti e ben fatti - rispetto a quel tema specifico - di questo. li perno del discorso è in realtà un altro: una sorta di panico, ancora adolescenziale ma dunque ben in sintonia con il grado di approssimazione a questi temi che la piccola borghesia del benessere può sentire, di fronte alla impossibilità di un'utopia di cui si sa l'irrealizzabilità e la assoluta fragilità, oggi in particolare: l'utopia dell'amore come comunicazione, sintonia, fedeltà, continuità, durala. E l'amore e fedeltà di coppia come metafora di un amore o di una fedeltà più vasti, di un'armonia collettiva, tema che era già di Bianca e, in parte, del finale di Ecce Bombo. Questo è l'aspetto intrigante del film, nonostante i limiti che a questo punto BibliotecaGino Bianco non sono tanto quelli della regia quanto quelli delle idee di Moretti - la loro origine più nevrotica che, diciamo, "filosofica". Moretti è ambizioso, si attacca alla sensazione, giusta, che la nevrosi del personaggio oggettivata nella difficoltà di accettare quello che qualsiasi buon cattolico sa essere il substrato della dottrina e della fede, e cioè la coscienza della limitatezza umana, il "peccato originale", possa essere rappresentativa di problematiche davvero immani; e che la semplificazione del messaggio ("la solitudine non dà felicità") possa infine essere rivelatrice più di affermazioni elaborate e dialettiche. Vi sono spunti nel film che potrebbero dargli ragione, figurine di solitari o di coppie, nuclei famigliari in crisi (unico a reggere quello dell'ex-prete, perché l'ex punta tutto su quello e ne fa scelta "religiosa", peraltro assai discutibile), che dalla loro realtà potrebbero rimandare a molto di più se solo fossero meno figurine e se il protagonista avesse uno spessore non solo verbale. L'identificazione dello spettatore con loro è assicurata al minimo comun denominatore, l'essenzializzazione non ha corrispettivo nel linguaggio, la riduzione del tema nella proliferazione degli aneddoti non porta al panico - cioè all'interrogazione e allo scavo - ma resta alla superficie, a una sorta di sconsolante accettazione per i più (e qui torna a farsi vivo il sottofondo latamente cattolico, latamente come è di buon uso nel facile intruglio morale su Nanni Moretti dirige La messa è finita. SCHEDE/FOFI cui per lo più il cattolicesimo italiano continua a basarsi) o di rinuncia, di accettazione della solitudine (la prospettata fuga al Polo) non per spinta di autentica vocazione (il personaggio di De Vico) ma per individualismo amaro-orgoglioso. L'ultima scena del film, che per fortuna non conclude sulla faccia inespressiva del protagonista, è certo la più bella e originale: quel ballo in chiesa che è visionaria utopia, rinvio al sogno, una nell'abbandono della lotta da parte del protagonista, per fragilità anche del protagonista. Come si vede, Moretti tocca problemi gravi, ha ambizioni forti cui però non riesce a dar sostanza cinematografica, un po' per limiti oggettivi (è un regista che "sente" assai poco il cinema, è un attore men che mediocre), e un po' per un'adesione troppo poco "distante" rispetto a un humus culturale epocale da cui anch'egli è prodotto. Il suo film ondeggia in una mezz'aria, non è sufficientemente radicato (poiché mira ad astrarre - per esempio nella scelta di ambienti sempre tra il fatiscente e il solare e mai urbani e duri, affinché non si insista sulle radici storicosociali delle nevrosi) e non è sufficientemente elevato (perché vuol farsi intendere da un pubblico troppo di simili). La via d'uscita per un risultato adeguato poteva trovarla solo nella misura di uno stile davvero pregnante ed essenziale, e chissà che, prima o poi - puntando sul testo, rinunciando alla sua faccia, scegliendo un rigore - non possa magari farcela. 9
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