Linea d'ombra - anno IV - n. 14 - maggio 1986

92 SCHEDE/FOFI nati l'uno dall'altra". Con l'amico di passaggio verso qualche sperduto posto dell'Oceania, che è Werner Herzog, affronta questo punto essenziale del cinema attuale. A Herzog che, dall'alto della torre di Tokyo, gli esalta una scelta di primitività, valori e immagini pure, himalayane o lunari se necessario, in nome di un'autenticità e alterità radicali da grande visionario neoromantico, Wenders contrappone la necessità di "trovare" un nuovo sguardo ordinatore come era quello di Ozu, ma qui a Tokyo, nel cuore del mondo industriale e tecnologico. Forse, non è più possibile. Forse, neppure Ozu sarebbe più capace di quello sguardo illuminante la realtà che rappresenta. Ma non può essere data per scontata la fine di una certa visione del reale e di un certo cinema. Il vero rischio non è tanto quello fisico che Herzog sfida a ogni film in una ricerca di sé e di comunicazione spinta agli estremi (e nell'assoluto di questa proiezione di sé c'è anche il fascino del suo cinema, la sua diversità), bensl quello di una pratica cinematografica che si incentri su quello che Wenders, con appena un di più di gusto dello specifico, chiama un "impegno metropolitano", sulla città come "il più grande serbatoio di immagini". Insomma, guardare e trovare. È questione di scelta di posmone. Wenders non vuole fuggire. Quando sta per recarsi in visita a un qualche celebre, esotico monumento, fa una brusca inversione di marcia e torna all'allucinante sala di pachinko, regno del caso, dell'azzardo, del non-senso. Ozu è un referente attivo, Tokyo-Ca assomiglia soltanto in apparenza al film su Nicholas Ray, referto sulla morte di un uomo e di un cinema. Ozu è il maestro di una tradizione altra che Wenders sente vicina se non altro come richiamo a una necessaria responsabilità di fronte all'esistenza; è il cineasta che "spiega", penetra le cose senza forzarle in un rapporto critico e vitale con il reale che è quello che Wenders ipotizza, anche se nella sua visione ultima e più conciliata l'elemento comprensione tende a prevalere su quello contraddizione e si mescola con l'ambiguo, spiritualistico mito dell'Autenticità e si sostanzia dei poveri valori "positivi" della famiglia: ed è ai genitori e al fratello che, a imitazione di Ozu, cantore dei rapporti familiari, ma pure sull'onda del suo Paris, Texas, il film è dedicato. Se esiste una "impossibilità" a uno sguardo che dia "ordine" all'intrico attuale, nonostante tutto Wenders, a differenza di tanti altri, se lo pone come problema, non lo accetta con rassegnato cinismo. BibliotecaGino Bianco LA"COPPIAECCENTRICA" GIULIETTEAMARCELLO Goffredo Fofi No, Cinger e Fred non è un film sulla televisione, o almeno non dice nulla di particolarmente acuto o nuovo su questo mezzo invadente, diffusore del mediocre e del pessimo, propugnatore di una massificata volgarità, incantatore, come dice Fred-Mastroianni, di "sessanta milioni di pecoroni" italici e, tra loro, di una buona misura di intellettuali di regime. Il gran carnevale che Fellini ci mostra è una superficiale galleria di "mostri", tale e quale quella mostrata in altri film del riminese sul circo, sul cinema, sulla rivista o sulle suburbia del basso impero, sulla Roma dei Sessanta, sulle navi di lusso, sui villaggi d'era fascista eccetera. E si potrebbe anzi, senza difficoltà, dimostrare come Fellini sia stato anche un modello per le parate televisive degli spettacoloni serali cosiddetti di varietà, e perfino per tanta pubblicità (non ne fa forse egli stesso, anche se, come Zeffirelli, altro fornitore di modelli, è sempre pronto a lamentarne l'intrusione nei suoi film?). La sua satira è dunque troppo compromessa per essere morale, e troppo baracconesca per lasciare il segno: una congrega di figurelle da "Travaso", ripassate estremizzando sugli esemplari televisivi. Non è qui che Cinger e Fred trova il suo cardine, e se il film tiene, regge, piace (perfino a me) è per ciò che c'è in mezzo, Giulie/la Masina e Mastroianni in Ginger e Fred. tra una passerella e l'altra di varie caricature insulsette: Ginger e Fred, appunto, cioè Giulietta e Marcello (ma la coppia vera si chiama Fred e Ginger, e dobbiamo pensare, per il ribaltamento, alle bizze della signora Fellini come alla galanteria dell'ottimo Mastroianni). Certo, il patetico del loro incontro vive del rapporto con uno sfondo, ma quello sfondo avrebbe potuto essere anche un altro, oggi, anche il più banale e quotidiano, e la sua qualità non se ne sarebbe svilita. Di più, dopo tanti "affreschi" e tante sciorinate metafore collettive e tanti personaggi e tante schegge, Cinger e Fred funziona per quel primario, semplice ritorno di Fellini a una narrazione da racconto, da novella breve, con un principio, uno sviluppo, una fine come i cari temini di una volta. E se si togliesse dal film la gran parte del carnevale lasciando solo l'indispensabile al buon sviluppo della vicenda, il film migliorerebbe assai, il messaggio sarebbe più limpido, la misura artistica più efficace. Cinger e Fred è infatti un film di senilità sulla senilità - un argomento che pochi cantano, e che oggi più che mai andrebbe invece cantato. A esso aggiungono tono e calore le identificazioni degli attori - ma anche del regista - coi personaggi, e il loro spaesamento di più che sessantenni di fronte alla incomprensibilità e volgarità del mondo di oggi come al proprio decadimento biologico e alla nostalgia che li invade della gioventù e del sogno di armonia che la loro gioventù portava con sé, misero ed esile e a suo modo anch'esso "volgare" (gli anni trenta-quaranta sono anche quelli del fascismo e della guerra, non certo armonici e nobili) ma di una volgarità di segno indubbiamente diverso, più povera e ingenua rispetto alla nostra contemporanea. L'armonia sognata era poca cosa: l'accordo di coppia in un fox che Astaire-Rogers sublimemente ritmavano ricamandolo nello scenario pacchiano del bianco e nero. Sogno di armonia di coppia, di provvisorio paradiso raggiungibile o almeno "imitabile", di vacanza elegante da una quotidianità di squallore. Il breve ultimo incontro di due sottoartisti, ridotti oggi alla dimensione, lei, di una borghese opulenza decorosa e di reazionario buon senso e, lui, di una velleitaria minimale rivolta di chiacchiere, è scrutato e narrato con affettuosa sensibilità, ma anche con squarci di spietatezza non sempre volontaria; e quel che vale è che non si eccede nel patetismo, non si ricatta come di solito avviene con questo regista e quello sceneggiatore, se non

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==