privazione perché sta drammatizzando se stessa, la propria cultura, il proprio paese, la propria privazione stessa. Quello che fa le impedisce di dimenticare: i gesti, dopo l'abbandono del paese, le impediscono di dimenticare il mondo che li ha prodotti, cui quei gesti appartengono. E la tanguedia, infine, in quanto comunque altro dalla vita, contiene tutte le possibilità che invece si esauriscono inevitabilmente nella vita. Solanas arriva a un nodo: sia la rappresentazione, sia la lontananza che genera sofferenza sono parte dell'assenza di prospettiva politica degli esuli. Non è la prima volta che questo succede, in un film, a Parigi. Torna .alla mente La guerra è finita di Resnais. Un esule che, proprio per non arrendersi alla nostalgia e all'impotenza, fa della propria vita una rappresentazione: il tentativo di messa in scena - anche quella senza finale - dello sciopero generale antifranchista in Spagna. Nel film di Resnais il dramma era più forte, perché la recita era la vita. Solanas in questo forse non riuscirebbe; in ogni caso, nel suo film le due cose sono separate, una da una parte e una dall'altra, anche se una è la metafora dell'altra. (Tra l'altro, sia in Resnais, sia in Solanas il dramma dei vecchi che credono nella loro recita, quale che sia, è reso lacerante dal disincanto dei giovani. "Non c'è problema che in dieci anni non possa essere risolto", dice la figlia di Mariana alla fine, così come Montand era deriso dai giovani per i quali, appunto "la guerra era finita".) Anche l'internazionalismo è finito, nonostante la coreografica manifestazione di protesta per i desaparecidos. Solanas sembra credere lui stesso a quella parigina che, dopo la presentazione della tanguedia, la definisce "troppo tipicamente argentina" per Parigi. Solanas sembra crederlo perché in tutto il film, per gli esuli, non esiste altra prospettiva che non sia il ritorno. Anche in questo la recita metaforizza del tutto la vita: "L'unico finale sarebbe il ritorno a casa". Ed è il ritorno che spiega i fantasmi di Gardel e di San Martin, i due massimi eroi popolari argentini (entrambi usciti di scena prima del tempo: Gardel morto a 45 anni, San Martin in esilio a 46). Entrambi voce e parola del popolo: questo sono quando visitano Gerardo, nella notte. (Certo, solo nella solitudine si colloquia con i propri fantasmi. L'hanno già fatto anche Juan 2 con la madre e ancora Juan 2 e Mariana con Discepolo e lo stesso Gardel, sbucato nella notte con la sua Rolls Royce.) Insieme bevono il mate e il generale dice BibliotecaGino Bianco a Gerardo: "Non ti sembra che sia ora di tornare ormai?", "Bisogna tornare"; e Gardel canta: "Tornare, con le tempie imbiancate ..." E alla fine gli esuli tornano tutti. A Parigi rimangono i giovani, che faranno del tango un'occasione per del teatro di strada - non molto argentino, né con molte esigenze - sovvenzionato dalla generosità dei passanti. L'ORDINEPOVERO, DAOZUAWENDERS Gianni Volpi Che cosa può essere un film di Wenders se non un viaggio? Un Viaggio a Tokyo, questa volta, nel senso letterale, documentario del "genere", di diario e reportage, ma ancor più come riferimento al "maestro" Ozu, al suo film più famoso il cui inizio combinato con la voce off di Wenders (come Nick's movie, vuole essere un intervento in prima persona, "allo scoperto") inizia Tokyo-Ca e le cui immagini assolute di treni che le attraversano, di pasti, di silenziosi incontri familiari riemergeranno a più riprese, come un leitmotiv, come sua nervatura: omaggio, nostalgia, referente teorico. Se a essere ripercorso è come Nel corso del tempo il nesso cinema-società - qui, però, tutto spostato sul cinema, su che cosa deve e può essere oggi - Ozu, seppure un Ozu semplificato, resta una guida perfetta ma difficile. Significa la memoria di rapporti veri, che durano, recuperati nelle interviste a Chishu Ryu, l'attore che per lui ha sempre fatto parti di vecchio, e all'operatore Yuhara Atsuta che parla tecnico (la cinepresa bloccata a pochi centimetri del suolo, lo stuoino come strumento di lavoYasujiro Ozu. SCHEDE/VOLPI ro) ma non riesce a nascondere le lacrime; soprattutto incarna il mito di un'innocenza e trasparenza al reale perdute. Alla ricerca di Ozu, Wenders trova soltanto il Giappone di oggi che non è che la versione estrema e "strana" (strana come ogni futuro) del nostro mondo. Allucinanti immobili e cimiteri per picnic, rockabillies e gamblers sono finzioni che non rimandano a un senso. Siamo in un mondo, in una realtà di "finzione". Anzi, di imitazione. Tokyo è il pachinko, gioco solitari di percorsi di palline meccaniche a immagine di una spaventosa solitudine e di un tempo inutile; è il cibo di cera ad uso delle vetrine dei ristoranti, minuziosamente riprodotto in ogni dettaglio, in ogni piatto, cotto, colorato "al naturale", sino a non essere più, in una delle sequenze più divertenti, distinguibile da quello vero; è il golf che si gioca sui tetti dei grandi palazzi residenziali o degli affari, in uno stadio a più livelli, snaturato a puro atto formale e sociale che non ha più un fme, quello di mandare la pallina in una buca, ma è gesto fine a se stesso: nel vuoto. Forse c'è qui proprio il cuore di una cultura e di una società dell'artificio, del falso. Di più, sulla tomba di Ozu che Wenders è andato a ritrovare in un cimitero periferico, compare soltanto l'ideogramma "mu" che significa "il vuoto", senza altre indicazioni. È il reale stesso a fornire la propria chiave. Non c'è un oltre da decifrare, né in quella tradizione, in quell'ordine naturale e religioso di cui, del resto, Ozu aveva raccontato la crisi, né nell'attuale realtà degradata e grettamente materiale. Segni e simboli si avvitano su se stessi, scissi da una logica prima astratta, invisibile. Alla fine, il documentario in sé può apparire anche povero, scontato, già visto. Wenders non è davvero un reporter, è un viaggiatore solitario e sentimentale, e da ultimo (da Camera 666) interessato a ri0ettere attraverso, con gli altri cineasti, sulla difficoltà a filmare l'irrealtà in cui si muove, anche se lo fa con strumenti teorici e culturali non sempre all'altezza. La Germania rurale, di frontiera di Nel corso del tempo era uno "schermo bianco", approdava a un'assenza come nazione e come cinema. La nevrotica metropoli di Tokyo-Ca è popolata di immagini televisive, ma che non "passano", non parlano. Schirofreneticamente, il teleschermo luminoso sul taxi sembra procedere da solo nella notte. Immagini povere di realtà. "È sempre più raro che un film di oggi dica la verità", sostiene Wenders, "il cinema e la vita si sono allonta91
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