ficamente alla concezione dialettica. Secondo Brecht, anche lo spettatore impara qualcosa, e precisamente la differenza tra "prassi" reale e teatrale. In Brecht il cane ricopre una posizione privilegiata già nella struttura drammaturgica di Aspettando Godot. Le prime parole all'inizio del secondo atto suonano: "Un cane entrò in...". Tuttavia, cosa molto rilevante, in precedenza c'è stato il frenetico attivismo muto di Vladimir dopo la sua entrata in scena. Come è noto, quest'opera - da un punto di vista sia drammatico che drammaturgico - è posta sotto il segno della ripetitività. Alle prime rappresentazioni, il pubblico assetato di sensazioni tradizionali subodorò la pretesa di dover probabilmente assistere, dopo l'intervallo, ad una semplice riproduzione di quanto si era già prodotto in scena. E infatti il secondo atto inizia con l'avvertenza: "Il giorno dopo, alla stessa ora, stesso posto". Didi ostenta un grande attiAspettando Godot al Thiatre de Baby/one, Parigi 1953, regia di R. B/in, con L. Raimbourg e P. Latour (foto Bernand). BibliotecaGino Bianco APERTURA/MAYER vismo, corre, resta fermo, indaga, è pronto all'azione e al culmine del suo desiderio di attività si mette a cantare "a squarciagola" (loudly). La convenzionale sfortuna del clown, dapprima, che mira troppo in alto e deve imparare a tenere sotto controllo le proprie manifestazioni. Poi comincia a cantare del cane, del cuoco, della morte e della sepoltura. Qui si interrompe una prima volta, si fa pensieroso e ricomincia di nuovo. Riprende dalla solidarietà degli altri cani e dalla sepoltura. Prosegue poi senza arrestarsi cantando tutta la storia. Non lo disturba il fatto di riprodurre ora, con la stessa disinvoltura e attivismo dell'inizio, una storia che ha già descritto e cantato in precedenza. Evidentemente non gli è affatto chiara la differenza tra primo racconto e racconto del racconto. Per lui tutto resta su un unico piano .. Ovviamente anche nella ripetizione Didi arriva al punto della tomba e della sepoltura. Ancora ripetizione della ripetizione. Riflessione e nuovo attacco. Ma stavolta non si procede. Tenta ancora, però adésso canta "più moderatamente" (softly). Ma non si riesce ad andare avanti. La fine è il nulla della tomba, la lapide. Ammutolisce, resta immobile, poi si rimette a correre febbrile e vorticosamente attivo per il palcoscenico. Il secondo atto è già riproduzione quando il clown Vladimir lo apre con una cantilena che si ripete all'infinito intonando, secondo le intenzioni di Beckett, la forma e insieme l'essenza di questo atto - e quindi la struttura di tutto il dramma. Dappertutto l'attività viene posta a confronto con situazioni irrigidite. Stessa scena, stesso tempo, stesso luogo. E si tratti di prodotto o riproduzione: alla fine c'è sempre la tomba. Solo questo è in grado di turbare Didi. Egli resta fino all'ultimo un idealista e un uomo d'azione. Sempre nuove speranze, nuove attese di Godot, nulla sembra fuorviarlo. Ridiventa ogni volta pensieroso soltanto all'idea che il cane ora sia morto e venga sepolto. Fino a quel verso fatale la cantilena era per lui semplicemente una forma di attività, produzione artistica, sovrastruttura estetica. Cantava a voce spiegata spinto dall'impulso ad agire. Ma Vladimir si era abbandonato con troppa leggerezza alla sua "empatia". Improvvisamente l'arte cominciava a parlare di morte e di tomba, con l'effetto di portare turbamento all'interno della "vita". Che qui Beckett ritorni ancora una volta sulla contrapposizione tra astoricità e fede soggettiva nella storia, è incontestabile. Che abbia concezioni filosofiche simili a quelle del brechtiano Andreas Kragler-che vanta una formazione umanistica - si potrebbe forse dimostrare. Più significativo, in questo singolare dualismo di Brecht e Beckett sotto il segno di un cane, è il gioco del drammaturgo Beckett con una drammaturgia dell'empatia, in cui egli usa ironicamente quella cantilena del cane, del cuoco e della tomba che Brecht riteneva un esempio particolarmente felice con-cui dimostrare la drammaticità e la drammaturgia dello straniamento. · (traduzione di Claudio Grojf) Conferenza tenuta a Milano, Salone Pier Lombardo, aprile 1986. Ringraziamo Hans Mayer e l'Istituto Goethe di Milano per avercene permesso la pubblicazione. 7
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