Linea d'ombra - anno IV - n. 14 - maggio 1986

STORIE INCHEMODOL'INCREDIBILE È DIVENTATOREALTÀ Mario Barenghi Tutti e cinque i capitoli di cui è composto il romanzo di Bohumil Hrabal Ho servito il re d'Inghilterra - scritto nel 1971, ma pubblicato solo undici anni dopo nell'originale ceco, e ora tradotto da Giuseppe Dierna per le edizioni E/O (pp. 240, L.22.000) - cominciano con la stessa frase: "Fate attenzione a quello che ora vi racconto". Una sollecitazione diretta, colloquiale, quasi brusca: che pare rivolgersi non tanto al lettore di un libro, quanto a un ascoltatore presente, a un interlocutore in carne ed ossa. E in effetti è cosl: il narratore-protagonista di Ho servito il re d'Inghilterra noc è un intellettuale, che affidi le proprie memorie alla pagina scritta, né un personaggio qualunque, istruito o no, che si disponga a rievocare la propria vita passata in forma quasi-letteraria - cioè ordinata, distesa, meditando su quanto gli è accaduto, e con ciò stesso sollevandosi al di sopra del livello del parlato comune. Il personaggio che qui dice "io" (e lo dice di continuo, senza posa: il libro è una successione pressoché ininterrotta di verbi coniugati alla prima persona singolare) ci si presenta sotto la specie di un'oralità torrentizia, concitata, strabocchevole. Chi parla è un piccolo, un apprendista cameriere. Basso di statura, è smanioso di sembrare più alto; povero, studia ogni mezzo per affermarsi e arricchirsi; dileggiato, si aggrappa a quel che il caso gli offre per ottenere una rivincita. Come un moderno picaro, o meglio, come un bambino ("bambino" suona il suo cognome in ceco, Dite) è animato insieme da una nativa estroversione vitale e da un'invincibile curiosità per le persone e le cose. In lui l'ignoranza, l'avidità, la sensualità, la testardaggine sono tutt'uno con il candore e con l'istinto di sopravvivenza. Ma se di tutto ciò che vede e che gli accade intorno sembra capire ben poco - il suo sguardo è troppo infantile, la sua cultura inadeguata, i suoi interessi ristretti - dal fiume torbido e tumultuoso delle sue parole emerge il profilo di una coscienza elementare, sl, ma risentita e viva: e prende risalto una realtà umana e storica che di semplice o di infantile non ha davvero nulla. Siamo a Praga, negli anni Trenta. Il BibliotecaGino Bianco piccolo apprendista cameriere vende wiirstel alla stazione, a~colta le ciarle dei commessi viaggiatori, frequenta le ragazze di un vicino bordello, investe i suoi risparmi nell'acquisto di un frac. Poi il suo orizzonte si allarga: cameriere a pieno titolo, lavora in risoranti di lusso dove si danno convegno uomini politici, affaristi, generali; senza stupore e senza indignazione spia orge e gesta di ricchi crapuloni e scapestrati. La sua carriera toccherà il culmine quando, allievo di un mattre espertissimo che ai suoi tempi aveva servito niente di meno che il re d'Inghilterra, si troverà a servire personalmente l'imperatore d'Etiopia. "lo, che avevo servito l'imperatore d'Etiopia" diviene una specie di autodefinizione formulaica, ingenuamente orgogliosa. Ma gli anni passano, e la storia incalza; sulla Cecoslovacchia incombe la minaccia dell'invasione nazista. Il discorso, che fin qui si era mantenuto su un registro comico-grottesco, inizia a rivelare un'intima sostanza tragica, pur senza tradire il suo carattere di umoresca e disordinato bavardage. L'expiccolo, che per desiderio di rivalsa contro gli schemi dei compatrioti aveva solidarizzato con i tedeschi, vivrà l'esperienza dell'occupazione e della guerra nei panni del collaborazionista. Fra le disavventure private e il panorama sempre più rovinoso delle sciagure colletti ve, egli troverà tuttavia un modo per riscattarsi; dopo la guerra riuscirà addirittura a coronare l'antico sogno di diventare milionario. Ma per sentirsi veramente milionario ha bisogno di essere pubblicamente, ufficialmente riconosciuto come tale: e quindi si batterà per essere espropriato e internato, secondo le norme del nuovo regime comuBohumil Hrabal (da "L'Espresso", 64-1986). SCHEDE/BARENGHI nista. La conclusione è di sapore idillico: alla violenza della storia subentra la serenità del contatto con la natura. L'eroe che aveva servito l'imperatore d'Etiopia si ritirerà a vivere in montagna, facendo il cantoniere, e avendo al suo desco per ospiti un cavallo e una capra. Il racconto affastella l'uno sull'altro dettagli e avvenimenti importanti, descrizioni e aneddoti, digressioni e pettegolezzi. I periodi, sintatticamente elementari, si accumulano e si inseguono, legati fra di loro da interminabili serie di virgole e di "e": quando infine arrivano, punti fermi e (più spesso) puntini di sospensione non indicano pause logiche, quanto sospiri, o respiri più lunghi. La loquacità del protagonista sembra incontenibile: irriflessa e indiscreta, limacciosa e scomposta come l'oratoria di certi ubriachi, ma anche crepitante di vivacità e di umorismo, lampeggiante di ingenuità rivelatrici, e capace di momenti di commozione intensissima. In verità, come avviene anche altrove in Hrabal - penso soprattutto all'altro romanzo, o per dir meglio all'altro racconto lungo edito da E/0, Treni strettamente sorvegliati (1965; trad. it. di Sergio Corduas, 1982) - gli eventi e gli scenari che formano l'oggetto della narrazione, presi di per sé, suggerirebbero un accompagnamento sonoro ben diverso dalle chiacchiere petulanti e dalle fanfaronate di un personaggio ingenuo e logorroico. Il mondo di quelle storie, di per sé, si associerebbe piuttosto all'idea del silenzio: un silenzio fatto del quotidiano scialo di suoni inutili, di voci dimesse o inascoltate, di modeste ambizioni senza sbocco: il bruslo della frustrazione e delle abitudini. Ovvero, il silenzio delle atrocità improvvise e indicibili, eventualmente rappreso in gemiti e in grida di comando, squarciato dalle esplosioni e dagli spari. Sopra questo mondo di silenzi soffocati e sinistri, di umiliazioni, di lacerazioni, di stragi, le chiacchiere dei protagonisti di Hrabal assurgono ad emblema di una tenace volontà di sopravvivenza dell'umano, che è molto più di un gesto estremo, di un disperato esorcismo. L'ininterrotto flusso delle parole costituisce una sorta di denso brodo organico, in cui nuotano e si mescolano (sia pure allo stadio di cellule o di spore, e confusi con tante sostanze diverse) valori autentici e fondamentali: l'amore, la pietà, la voglia di conoscere, il bisogno di giocare. Se insomma una speranza per l'avvenire riesce a resistere, è proprio perché affonda le radici nella coscienza di personaggi ignoranti e semplici, anziché nella eleborazione astratta 83

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