Linea d'ombra - anno IV - n. 14 - maggio 1986

Il libro nel labirinto Dobbiamo innanzitutto ridefinire, in una fase di incerta transizione come la nostra, la specificità di quello strumento di comunicazione che è il libro. Farla coincidere, come avviene di s<;>litoc,on "le funzioni riflessive" (Giuseppe Vacca), con "la ncerca, la provocazione del pensiero, la tensione linguistica della scrittura" (Giorgio Calcagno), rischia di non corrispondere alle attese. Certo la lettura rappresenta per definizione un atto eminentemente critico, autoriflessivo, però con formulazioni di questo tipo si riaffermano le antitesi e i dualismi cui prima si accennava. Le riflessioni di Antonio Faeti, scritte con uno stile sobrio e piacevole, sembrano molto ragionevoli, ma terminano con una proposta di "esperimento didattico" che lascia perplessi. La sua "pedagogia della lettura", che dovrebbe ispirare le legioni di operatori culturali e di insegnanti, non sembra in fondo molto attraente. Tra percorsi labirintici, moltiplicazioni d'uso, scorribande, itinerari ramificati, la lettura erratica proposta da Faeti assomiglia soprattutto ad un ingegnoso esercizio di seJ?iol?gia della c~ltura di massa. Un conto è mostrare i possibili usi, le suggestive avventure dell'intelligenza che si possono compiere anche con il libro più mediocre, un conto è mettere qualcuno nella condizione di desiderare questo tipo di avventure. . Certo si tratta di una proposta rivolta agli "educatori"; però in questo modo l'atto di leggere, che si voleva arricchire di infiniti rimandi e prolungamenti, tende invece a complicarsi e a tecnicizzarsi. Benché la lettura non sia mai un atto spontaneo, la spinta a prendere in mano un libro e a leggerlo dovrebbe nascere dalla propria esperienza, individuale e sociale. Equesto non dipende da pedagogie culturali ma dalla possibilità stessa di avere delle esperienze, di interpretarle e accumularle, di comunicarle agli altri. Quasi come terapia rivitalizzante del libro, Faeti auspica un suo accostamento ai nuovi media, con i quali può stringere un rapporto fatto di connessioni, interazioni, alleanze. Il rischio però, a dispetto delle intenzioni stesse dell'Autore, è che in tal modo si avrà sempre bisogno di chi (insegnante? semiologo?) quelle alleanze è in grado di mostrare e di spiegare. È giusto ridefinire il libro come medium tra gli altri e che, insieme a tutti gli altri in posizione non subalterna, concorre a soddisfare il "consumo dell'informazione, dello svago, della produzione di sensi e di significati". È giusto liberare il libro da ogni "aura stantia" con cui ci si poteva illudere di preservarlo e di proteggerlo. La sfida della concorrenza va accettata. Il libro deve essere immaginato all'interno di un complesso sistema multimediale. Però non basta l'immaginazione per togliersi i complessi di inferiorità. In posizioni come questa ci sembra aleggi un eccesso di ottimismo (del genere "identificazione con l'aggressore"). Resta il dato inequivocabile che oggi la gente tende ad informarsi e a divertirsi con media diversi dal libro. E poi forse abbiamo bisogno più che di "lettori ostinati" di individui che ricerchino "con ostinazione" una forma da dare alla propria esperienza. La lettura, anche in questo caso, viene dopo. Il buon esempio della lettura Mettendo da parte ogni discorso "politico" (più o meno utopistico o apocalittico) sulla necessità che muti l'intero contesto, ovvero le infrastrutture, la mentalità, il rapporto con il tempo libero, i libri di testo, la scuola e perfino l'attuale divisione del lavoro, ci si può limitare alla solita "modesta proposta". Proprio nell'immagine sociale prevalentemente negativa che la lettura sembra avere (ricordiamo Bellenger: "leggere ... significa starsene in disparte, ripiegarsi su se stessi") è racchiusa una percezione, non priva di verità, dell'elemento antisociale BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE che in ogni lettura è implicato. Pensiamo alle conclusioni cui pervengono David Riesman e Giuseppe Fara e Paolo Cundo (citati tutti nel Lettore ostinato). Il primo difende il libro perché permette un isolamento che rende più sopportabile la vita in comunità, mentre "nelle tribù preletterate non c'era modo di sfuggire agli altri". I secondi si affidano al libro come arma contro l'invadenza dello stato moderno e dei mass media, al fine di proteggere la propria individualità assediata. Forse queste posizioni tradiscono una fiducia eccessiva nella individualità, ma indicano una tendenza che fino a qualche tempo fa sarebbe stata impensabile. La lettura insomma da momento decisivo (e coercitivo) della socializzazione di un in- ~v~duo dive~ta un mezzo per s~uggire agli altri (per poi magan nn:ontrarh, ma solo al termine di un lungo percorso), per sfuggire alla pressione cosl spesso insostenibile del sociale (il "grosso animale", come lo chiamava Platone), per sottrarsi ad ogni controllo, impegno, "partecipazione". Può apparire un piacere squisitamente elitario, una proposta difensiva e per pochi eletti, ma in realtà si tratta di un'esperienza virtuale alla portata di tutti e che corrisponde ad un bisogno molto diffuso, anche se non sempre cosciente. Abbiamo spesso ripetuto che quello della lettura non è un piacere "facile", spontaneo (né necessario), che presuppone certe condizioni sociali, familiari, psicologiche (di agio, di relativa tranquillità), che comporta spesso un notevole sforzo iniziale, anche doloroso. Ha scritto in proposito Franco Fortini: "il grado di concentrazione necessario alla lettura di La montagna incantata richiede oggi al lettore medio un grado di sofferenza di gran lunga superiore al piacere che ne può ricavare" (Insistenze, Garzanti 1985). Non sappiamo se questo sia sempre vero, ma il nostro riferimento ad una pedagogia più generale, capace di creare una "ab~tudine", non può essere limitato alla scuola. Anzi, per proseguire con la nostra "proposta", intendiamo affidarci al P!1flcipalesu:ume~to di ogni educazione, che non è la persuasione o ~asp1egaz1?ne,_m~ l'esempio, il contagio sociale (oggi necessanamente minontano). · È innegabile che la capacità media di lettura prolungata e di "attenzione" è attualmente molto ridotta, anche solo rispetto a qualche decennio fa, soprattutto in rapporto ai libri di narrativa, ai libri non utili. Ci sembra però utile riaffermare che delle cinque funzioni che Henry Miller assegnava alla lettura (uscire da sé, armarsi contro i pericoli, fare impressione agli altri, sapere quello che succede, divertirsi; tutte cose variamente intrecciate), la prima, cioè l'evadere, è quella paradossalmente più attuale e più "eversiva". I dati Istat non autorizzano a commenti trionfalistici: non lettura e scarsa lettura restano nel nostro paese un fenomeno desolante e assai diffuso. Ma un'analisi giustamente realistica di questi dati dovrebbe accompagnarsi alla consapevolezza che un mondo senza libri non deve necessariamente farci paura. Il piacere delle lettura (per chi ha il privilegio di provarlo) è uno dei tanti piaceri possibili. Soprattutto si tratta di un piacere che non ha senso separato e isolato da tutto il resto. Nel momento in cui tutto il resto appare seriamente minacciato, occorrerebbe difendere più ancora che la lettura ciò che, almeno oggi, alla lettura risulta indissolubilmente connesso (la capacità di elaborare l'esperienza e di confrontarla, la libera costruzione della propria identità, la "iniziazione" solitaria a mondi lontani ...). Questo significa, in ultima istanza, affermare ciò che rende possibile la lettura.

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