DISCUSSIONE direttamente al lavoro o al ruolo sociale di ciascuno; soprattutto era fatica" (A. Petrucci, in Libri, editori e pubblico nell'Europa moderna, Laterza 1977). Certo un maggiore legame con il ruolo sociale non elimina la "fatica". Bruno Bettelheim e Karen :lelan osservano che proprio accentuando l'aspetto dell'utilità pratica si conclude necessariamente nell'obbligo e nella fatica; mentre si dovrebbe mostrare al bambino, prima ancora di qualsiasi valore pratico, il primitivo aspetto "magico" e visionario delle lettura, il suo introdurre a mondi ignoti e meravigliosi (B. Bettelheim e K. :lelan, Imparare a leggere, Feltrinelli 1982). Comunque è in questo nodo che lega libro e fatica, sacrificio (e solitudine) della lettura e sua inutilità sociale (perlomeno in un senso immediato), che si situa il cuore del fenomeno, e la radice profonda, difficilmente estirpabile, della diffidenza italiana per la lettura e i libri. Il dovere del testo Ma questa diffidenza, di origine non recente, può vantare qualche sua ragione o è del tutto infondata? Crediamo che la lettura non possa essere difesa in quanto tale, in un modo totalmente acritico, come fa per esempio la introduzione al già citato Destino del libro, con una genericissima citazione iniziale dell'onnipresente Borges: "il libro è un'estensione della memoria e dell'immaginazione". Questo infatti, ancorché espressione di un nobile ideale, non sempre si dimostra vero. Se i libri hanno salvaguardato il piccolo David Copperfield, lo stesso non si potrebbe dire, per fare un esempio concreto, di Adolf Hitler, avido e appassionato consumatore di libri (cfr. Lionel Richard, Nazismo e cultura, Garzanti 1982). Recentemente Mary Mc Carthy si è a lungo soffermata sui "malefici effetti della lettura" (Il romanzo e le idee, Sellerio 1985), redigendo una sorta di catalogo letterario: Don Chisciotte impazzisce leggendo i romanzi cavallereschi; Madame Bovary è rovinata dalla letteratura, mentre nello stesso romanzo gli unici personaggi positivi sono non lettori. E cosl nel Rosso e il nero e in tante altre opere tra otto e novecento. Occorre dunque distinguere. Quali libri si leggono? E soprattutto, dato che Emma Bovary si nutre anche di letteratura "alta", come si leggono? Almeno finora i libri non hanno salvato il mondo, anzi in un certo senso si potrebbe dire che hanno fallito. Sarà pure vero che i regimi dittatoriali esprimono sempre un'avversione per i libri (pensiamo all'apologo estremo di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury), ma è altrettanto vero che "gli strumenti tradizionali della civiltà - le università, le arti, il mondo librario - non sono riusciti ad opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica" (George Steiner, Linguaggio e silenzio, Rizzoli 1972). Nel cuore stesso della letteratura e del pensiero fùosofico si sono levate da sempre delle voci di critica radicale al libro, ad una cultura prevalentemente cartacea, polverosa, ad una lettura che finisce con il sostituirsi alla viva esperienza e alla stessa attività del pensare. Da Lichtenberg al nostro Foscolo ("non sono uomo di libri"), da Tolstoj a Hesse, da Nietzsche a Henry Miller e a tanti altri. Né, in tempi di restaurazione (e di rimozione) si può dimenticare, accanto a questo filone vitalistico, la critica anarchica e più ideologica al "culto del libro" che fu del '68. Cosl scriveva Guido Viale: "le nuove leve del neocapitalismo si costruiscono in casa degli altari denominati librerie ... dove il feticcio libro regna incontrastato" ("Quaderni piacentini", n. 33, febbraio 1968). A dire il vero, ci informa l'indagine lstat, ancora nel 1983 solo il 78,8% delle famiglie BibliotecaGino Bianco italiane possiede libri (e solo il 43,9% ne ha più di 25, vale a dire possiede quell' "altare denominato libreria"; il che può far meditare sulla penetrazione del neocapitalismo nel nostro paese). Comunque il rischio presente non ci sembra quello, paventato dalla Mc Carthy, che qualcuno perda la testa leggendo un bel romanzo. Magari la lettura avesse conservato quel pathos, quel coinvolgimento emotivo che poteva provocare, tra l'altro, gli "effetti malefici"! Il punto è che nei libri, come scriveva Ortega y Gasset nel 1935, vengono custodite soltanto le parole e non il pensiero; affinché questo possa rivivere non basta dunque leggere, ma occorre che "si riproduca in sé la situazione di vita a cui si riferiva quel pensiero" (La missione del bibliotecario, Sugarco 1984). Privi di illusioni sul valore in sé emancipato del libro, vogliamo però ricordare che qualsiasi strategia in sua difesa dovrebbe partire dal gusto del leggere (un gusto tutt'altro che "naturale" e legato a certe condizioni socio-culturali). Come abbiamo visto, nella nostra cultura l'accento viene posto prevalentemente sulla fatica, sull'obbligo, sul carattere perfino punitivo della lettura. Ora, senza essere demagogici, è bene ricordare che la lettura è, o può essere, fondata sul desiderio, sulla gioia fisica e intellettuale: leggere significa anche, secondo le parole di Lionel Bellenger (Saper leggere, Editori Riuniti 1980) "essere un po' clandestini, abolire il mondo esterno... si legge con tutto il corpo". Nel libretto del sociologo francese troviamo poi elencate quattro ragioni che spingono una persona a leggere: per trovare un rifugio, per comunicare, per riflettere, per informarsi. Altre ragioni si potrebbero aggiungere, ma il fatto che il piacere sia qui associato esclusivamente all'elemento del "rifugio" indica una tendenza della analisi sociale contemporanea su cui torneremo in seguito. Due tra le più recenti elaborazioni intorno a questa tematica appaiono caratterizzate dalla stessa ispirazione di Bellenger: ci riferiamo a Le pagine sono anche sensuali di Ermanno Detti ("Riforma della scuola", n. 11, 1985) e a Il medium e i messaggi di Antonio Faeti (cfr. Il lettore ostinato di Antonio Faeti e Franco Fabbroni, la Nuova Italia 1983); ma le proposte che ne risultano ci sembrano insufficienti. È certamente vero, come osserva Detti, che si può godere di un testo anche quando non lo si comprende fino in fondo, dato che la lettura ha a che fare con gli istinti e con la fantasia. Però la "lettura sensuale" rischia di irrigidirsi in un modello teorico che, in quanto tale, appare un po' unilaterale, oltre a presupporre un'antitesi troppo schematica tra piacere e dovere (l'idea di piacere infatti muta storicamente e socialmente: ciò che si presenta come dovere può diventare piacere, etc.). L'analogia, suggerita nell'articolo di Detti, tra "lettura sensuale" ed erotismo ci sembra riduttiva, come se si dovessero per forza omologare tutti i piaceri tra loro, in luogo di quella che è l'illimitata varietà che si trova in natura. E poi la parte conclusiva, in cui si prevede un cupo futuro nel quale rimpiangeremo perfino i lettori di fotoromanzi poiché comunque avrebbero nutrito il loro immaginario e la loro umanità, tradisce un attaccamento feticistico alla lettura che non ci sentiamo di condividere. Riferendosi agli "apologeti della cultura del leggere" scrive Hans Magnus Enzensberger: "pare che per loro sia della massima importanza con quale mezzo si produce la scemenza. Se è stampata bianco sul nero, evidentemente si tratta di un bene culturale; se invece è diffusa per cavo o antenna, allora 'è in pericolo la nazione' " ("L 'Espresso", n. 7, 23/2/1986). Tutti questi discorsi però spostano appena il problema di fondo. Resta il fatto che per milioni di persone semplicemente la lettura non è un piacere (il che dipende appunto da fattori sociali, istituzionali, etc.). In che modo può diventarlo nel breve o medio periodo, ammesso che sia cosl necessario che lo diventi?
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