tutto questoqualcosadi vero ci sia, a parte un'insistenzadeprecatoria un po' troppo senilmente imbronciata. E, certo, la penuria di autentici nuovi talenti e la omogeneizzazioneistituzionale e produttiva possono essere fenomeni correlati.Ma in primo luogo spiegazionidi questo tipo rischianodi contraddirsi a vicenda (forse non esistevanoindustrialismoe burocrazia negli anni Cinquanta, in Italia? non esistono, oggi, in paesi culturalmentemeno sonnacchiosidel nostro?).Secondariamente, e soprattutto, sono troppogenericheper "mordere"davvero la realtà.Vediamopen;hé. Dall'analisidi Arbasinomancanocompletamentedue ordini di considerazioni. 1) Una riflessione, sia pur sommaria, sul rapporto fra intellettualee società. Arbasinoriduce la dimensionesocialedella cultura ad un confronto sostanzialmenteprivato fra l'individuo singoloed alcune astrazioni:l'industriaculturale,implacabile sfornatricedi cibi precottie scatolame; l'apparatoburocratico (funzionari, specialisti, autorità. accademie),ora onnipresente e soffocante, ora torpido e tetro; la massa del pubblico ("il nuovo pubblico colto") gregge increscioso e disarmato, ma a tratti già corrivo e filisteo,e sempre inesorabilmentefacilone.Mai un accennoad unacaratterizzazionedell'attivitàintellettuale un po' più incisiva e stringente, o un riferimento a unadinamicastorico-socialein corsoche interagiscacon le sorti della cultura. E neanche una distinzionechiara fra livelli culturali diversie diverse fascedi pubblico,che consentada un lato di individuarele zone in cui l'asfissia lamentataha avutooriginee da cui si è diffusa (conla relativadenunciadi responsabilità sul piano politico-culturale)e dall'altro di indicare settori in cui essa risulta di fatto più paralizzantee deleteria- perché Alberto Arbasino (foto di Elisabetla Catalano). BibliotecaGino Bianco DISCUSSIONE non c'è dubbio che in ogni fase storica esista un livellodi produzioneintellettualee artisticadefinito, in cui più decisamente si gioca l'avveniredella cultura di una nazione. Arbasinoconstata che dove un tempo c'era la crema oggi c'è la schiuma,e la equiparao la confonde (non senza qualche escamotage)con la feccia.Ma come e perché e per colpa di chi ciò sia accaduto rimaneoscuro- a menoche non si tratti di un nonmegliodefinibilespiritodel tempo. 2) La questionedei valori.L'unicovaloreevocatoè la "piacevolezza"dell'arte,contrappostoallapedanteriadellenotomizzazioni erudite e didascaliche.Valore, questo, indubbiamente decisivo,e benissimofa Arbasinoa prendernele difese(si veda a questo proposito uno dei libri più belli e importantiapparsi ultimamente in Italia, l'Apologia dell'esperienza estetica di Hans Robert Jauss). Ma non basta. Non basta, perché quella dell'estetico,e tanto più in letteratura, è una categoria sostanzialmentespuria. Non si scrivonopiù libri belli, non si sa più trovarela bellezzanei libri?Ammettiamolopure.Ma allorabisognerebbedire che cosa è (o era, o ci pareva, o ci pare) bello nei libri belli, perché il bello in astratto non è mai esistito.Bisognerebbedire che cosa manca nei libri che oggi si scrivono, o nel modo in cui oggi i libri si leggono. Fare critica "di tendenza",dal momento che mancano (ed è ovvio che per lo più manchino)i capolavori. Scoprire, come raccomandavaGramsci, sia "l'unità essenziale al di sotto di ogni apparentecontrasto e differenziazionealla superficie", sia "la distinzionee le differenzeal di sotto di ogni superficialee apparenteuniformità": dialettizzandovolta per volta i termini della questione in rapportoa quella che ci sembraessere la prospettivadi sviluppo più desiderabile(o meno rovinosa). Sforzarsidi discernere nei libri che leggiamo dei valori (valori formali, intellettuali, morali,politici)che meritanodi essere salvaguardatie promossi, anche se si presentano in forma ancora imperfettae confusa: e metterli in evidenza, proponendoli come esempiodi ciò che vorremmoleggere e che vorremmovenisse letto.Compromettersi.Dire che cosa ci piace e non ci piace, checosa ci interessa e cosa ci lascia indifferenti,nelle storie, nei destini, nei caratteri:nelle immagini di socialità e nei modellietici che essi postulanoe incarnano.Dire, alla peggio, che cosa più decisamenteci ripugna e ci disgusta. E poi, chi è che legge in quel tal famigeratomodo,che tutto deprimee neutralizza?I critici letterati, forse, gli scrittori, i professorid'università:pochi addetti ai lavori; non la maggioranza del pubblico leggente.Ma Arbasino, intellettualearistocratico, insofferentee blasé, che lamenta una sazietàdi cultura involgaritae banalizzata,non sembra sfioratodal sospettoche un critico debba anche mettersi dalla parte dei lettori comuni: di quelli che non leggonoHenry James non perché si sentano "intralciati"dalla sovrabbondanza di manuali su HenryJames, ma perché, messo da parte l'ultimo "Harmony" (o l'ultimo giallo, l'ultimo "Urania") non trovano niente che li aiuti e li stimoli e li motivi a salire al di sopra di Bevilacquao di Ken Follett. O magari, perché non trovano un buon manuale su Henry J ames. In verità Arbasino, con tutto il suo stile e il suo acume, è un "parigino" impenitente: per questo il panorama che egli traccia risulta superficiale,fruttopiù di una reazioneepidermica di fastidio che di un vero sforzo di comprensione.Deplora più la divulgazione in quanto tale, che la divulgazionecattiva o mediocre.Mette sotto accusal'involgarimentodella letteratura, quandoè palese che essa soffre soprattuttodi unaperdurante mancanzadi autentica popolarità.Appiattisce l'impressionedi
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==