Linea d'ombra - anno IV - n. 14 - maggio 1986

la lingua e controllavano lo stato, mentre loro erano senza scrittura e senza struttura. Eppure io penso che l'esperienza dell'emigrazione abbia comunicato agli italiani, almeno a quelli senza alfabeto, cioè quasi a tutti, assai più di quanto non comunichi ora il complesso dei mass media. Queste sono immagini dell' America. L'emigrazione è l'America. A me è rimasta da una infanzia popolata di racconti degli emigrati e sugli emigrati, da una adolescenza popolata di partenze una geografia deformata in cui New York è più vicina e famigliare di Milano e il Danubio alle porte di ferro più vicino del Po a Pontelagoscuro. Del Danubio alle porte di ferro parlava sempre un fratello di mio zio, fatto prigioniero sull'Isonzo e tornato solo molto più tardi, negli anni trenta, con un occhio di meno e un dialetto condito di tutte le lingue danubiane. Di Pontelagoscuro parlava la radio durante la grande alluvione, ma era naturalmente un posto mitico e lontanissimo, un posto dove evidentemente piove sempre, cosa che qualunque statistica pluviometrica è in grado di smentire perché invece è la montagna abruzzese, dopo Udine, il polo della piovosità (e del fango) in Italia, ma che io allora credevo fermamente. Mi è rimasta la convinzione che il mondo si cambia anche con i piedi, andandosene; che le gerarchie non sono eterne e in ogni caso non universali. Mi è rimasta l'idea della normalità del partire o addirittura del dovere morale di partire. Se è vero che l'America ha qualcosa a che fare col fiume e la frontiera, come la sua letteratura, allora l'America mi è arrivata prima dei libri, prima dei western, ed è arrivata anche a quelli che i libri non li hanno letti mai e i western non hanno fatto in tempo a vederli. I nostri emigrati non erano partiti per fondare città, come i protestanti, non tutti almeno. Molti volevano solo rompere la miseria, andare dove c'era lavoro e il lavoro veniva pagato, fare soldi a qualsiasi prezzo e comprare la terra. Partivano senza soldi e senza lingua scritta. Erano tra i più poveri e i più analfabeti. Gli svedesi, che erano poveri quasi quanto loro; (il metro è quello di dollari posseduti all'arrivo, ed è un buon metro perché gli emigranti non si facevano fare versamenti sui loro conti esteri) sapevano leggere quanto gli inglesi e più dei tedeschi e sono una delle identità forti dell'immigrazione. Gli italiani forse non cercavano la libertà, o almeno non in quella forma astratta e limitata che è la democrazia. Cercavano piuttosto autonomia e ricchezza, cercavano di sostituire l'arbitrio proprio a quello degli altri, e hanno accettato la democrazia dove gli è stata imposta, dove sono stati costretti ad accettarla. Altrimenti harrri-6cercato l'anarchia, come gli emigrati in Patagonia, anarchici, che fecero e provocarono contro lo stato argentino una vera guerra, o hanno subito ed esercitato l'arbitrio. Sono stati al nord e al sud un pezzo dell'America, una delle tante piccole patrie, una parte del lavoro e della iniziativa, una parte della violenza dell' America, uniti ali' America dalla accettazione di fatto degli altri e delle istituzioni repubblicane, ma anche o più dall'essere (ovviamente e più immediatamente di molti degli altri) ciò BibliotecaGino Bianco STORIE/CIAFALONI che tutti gli americani intrinsecamente sono: emigrati. Salvo quelli che c'erano prima, naturalmente: gli uccisi. Oggi la letteratura e il cinema dell'America riportano agli italiani rimasti in patria o ai figli dei ritornati l'immagine dei partiti. Le Little Italy, i pugili, i gangster, i baristi, i camerieri, i mafiosi, vanno a tenere compagnia agli ebrei, ai russi, ai polacchi, ai tedeschi, agli irlandesi, agli anglosassoni, che c'erano già da tempo, sugli schermi di tutto il mondo. Le piccole patrie hanno sostituito l'apparente omogeneità dell'America protestante. Io penso che già prima il cinema e la letteratura dell'America parlassero anche dei partiti dall'Italia. Le storie dei contadini che si muovono per cercare nuova terra e coltivarla, dei pastori, ci sono risultate familiari anche perché sono storie di contadini e pastori sradicati, in generale. I contadini ritornati ci sono sembrati così americani, pantaloni a parte, non tanto perché avessero assorbito da una letteratura che non conoscevano, da un cinema che non avevano visto un comportamento di maniera. La letteratura e il cinema dell'America parlavano anche di loro. Un americano bianco e protestante ha trovato il tempo per scrivere un libro che si intitola Dovuto agli Irochesi, per rendere onore ad alcuni di quelli che erano stati i padroni dell'America, agli uccisi. Gli italiani colti non hanno trovato ancora il tempo per raccontare ciò che è dovuto agli emigrati, per rendere onore a chi ha contribuito a creare l'America e ha modificato il proprio paese per il solo fatto di averlo lasciato. Più di settanta anni fa Roberto Michels in uno scritto molto bello, che segna l'inizio del suo spostamento a destra, intitolato L'imperialismo italiano, sostiene che l'emigrazione italiana, a differenza di quella inglese, o svedese, spagnola, tedesca segna una perdita secca per la nazione. Gli italiani non sanno scrivere; perciò quando emigrano non allargano l'area culturale, e potenzialmente quella economica e politica, della nazione, ma si integrano in forme subalterne alla cultura degli altri. Gli italiani non sono stati ancora nazionalizzati, sono contadini, non italiani; perciò andandosene escono semplicemente dall'ambito dell'Italia. Nei suoi termini questo ragionamento può essere vero, purché si ricordi che in quei termini la nazione italiana non ha mai incluso i contadini. Se esiste una identità culturale distinta dalla classe sociale, dal fatto di essere pastori o contadini, essa non consiste nella lingua scritta, che consente generalizzazioni e diffusioni, consente l'organizzazione sociale moderna e lo stato, ma non è essa stessa costitutiva della differenza. Caso mai contribuisce alla differenza, o è un indicatore, un sintomo della differenza la lingua parlata. Questa identità è stata indubbiamente modificata, ma anche conservata, dalla decisione di partire. L'emigrazione è passata come un'ondata sulla penisola alla fine dell'ottocento: è un vento che sconvolge insieme le prospettive dei cafoni e quelle dei galantuomini. Il fatto stesso di fare il salto nel buio è una rottura d'identità, ed è però l'elemento di una identità nuova, quello dell'emigrante appunto, che è l'elemento comune dell'America e che è straordinariamente 67

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