Linea d'ombra - anno IV - n. 14 - maggio 1986

50 GIOVANECATTIVO Goffredo Fofi Nei nove racconti di Ballo di famiglia (Mondadori, pp. 197, L. 18.000; buona come sempre la traduzione di Delfina Vezzoli) il giovanissimo David Leavitt, ebreo californiano, non è affatto, come certa critica di là dellOceano e, di riporto, di qui, ha voluto, un "minimalista". E poi, cosa vuol dire in letteratura essere minimalisti? Minimalista era Cechov, per esempio, o la Woolf, o tanti altri - se l'accezione negativa cui questo termine allude è quella di non voler affrontare grandi problemi storico-sociali, preferendo entrare in essi dalle porte strette e delicate dei ritratti casalinghi, quotidiani, degli aneddoti semplici, comuni. Il problema non è questo, e ben lo dimostrano i racconti di Raymond Carver, asciutto descrittore di un malessere che non è solo della middle~class americana. La differenza tra Carver e Leavitt - o altri come lui - è innanzitutto di scrittura: troviamo in Carver una tensione che nasce dall'uso della parola più che dall'aneddoto, spesso ai limiti dell'insignificante (ed era da tempo che non trovavamo, come c'è in Cattedrale o nel racconto da noi pubblicato, una tensione di questo tipo); troviamo in Leavitt ambienti non diversi ma un gioco di effetti più ovvio, a volte più plateale, e aneddoti che si vogliono forti, subito rivelatori. Leavitt è, volente o nolente, un allievo di Carver, ma anche di narratori più facili, di cui bensl ribalta malinconie e richiami ali' "umano" o atmosfere decadenti e morbose. È freddo, abile e, nonostante la giovane età, di un cinismo privo di disperazione o di poesia. Il mondo che descrive non è poi cosl diverso da un certo mondo che anche noi conosciamo bene: quello di una piccola-borghesia del benessere i cui modelli sono ormai pressoché uguali dovunque, e nella nostra cultura sono arrivati proprio attraverso i concreti modelli americani. Provinciale o metropolitana, non cambia. Siamo americani anche noi, o sono come noi gli americani - che però ci hanno imposto, non fosse che con i serial televisivi, la loro durezza e le loro ciarliere e oscene coperture melodrammatiche. La differenza esiste ancora solo nell'occhio e nella penna dei letterati: spregiudicati ll quanto ancora imbevuti di lagna esistenzial-metafisica qui, e della convinzione di essere portatori di chissà quali verità universali positive, di essere ancora "autentici" solo perché si lamentano. Il cinema francese ci ha abituato a questa retorica fasulla delle "cose della vita", e la letteratura italiana dell'autoconsolazione piccolo-borghese ha ribadito, implacabile quanto inerte. Rispetto a questa capacità di mistificazione, l'America ha rotto gli indugi, è più darwiniana che mai, e sostiene la sua logica di egoismi e solitudine con proterva e canagliesca naturalezza, imperiale anche in questo. Ma BibliotecaGino Bianco David Leavill (/010 di Jerry Bauer) se in rari esempi attuali - Carver soprattutto - l'orrore dell'inautentico è ancora la molla che guida l'artista nell'esplorazione di questo mondo comune e delle sue illusioni, convenzioni, abitudini, e c'è sempre un momento in cui esse s'incrinano in una provvisoria, presto rientrata folgorazione, in scrittori come il giovane Leavitt non si ha più, semplicemente, la coscienza della "realtà", e l'unica realtà è quella quasi etologica di un'afferm~ione e sopravvivenza dentro la "legge". Qual è dunque l'aspetto positivo di questi racconti cosl antipatici di un narratore cosl antipatico? Credo proprio la cattiveria. Essi descrivono con calcolata furbizia rotture dell'ordine che bensl tutte vi rientrano, fanno parte dell'ordine. I modi dell'elaborazione e del riassorbimento delle rotture - morte e malattia, omosessualità o crisi di coppia, comportamenti anomali e irregolari - sono pacifici, la morale vi si aggiusta con scarti ormai "regolati". Anche quella dell'autore, che finisce cosl per essere egli stesso un documento di tutto questo, ma che ha il vantaggio, sui nostri delicati giovanotti, di guardare al mondo senza il paraocchi del sentimento e le finzioni dell'autentico mutuate da Handke come, senza saperlo, da qualche parmense di scarto. Freddo l'autore, freddo lo sguardo, e gelida la vita. UNARIVISTA PERLA"SUBLETTERATURA" Fabio Gambaro "Vomito, trimestrale di subletteratura", ultima creazione di Vincenzo Sparagna, vorrebbe essere un'iniziativa diversa e al di fuori delle tradizionali coordinate del sistema letterario, una provocazione in grado di disturbare i sonni dei letterati; in realtà la rivista, di cui è uscito solo il primo numero, non sembra proprio poter scandalizzare nessuno e il disegno dell'iniziativa, lungi dall'essere particolarmente innovativo, sembra invece recuperare le linee di fondo di una poetica di stampo decadente e un'aspirazione a certo maledettismo trasgressivo. In ciò, beninteso, non vi è nulla di male; ognuno ha il diritto di cercare i propri modelli culturali dove meglio crede, sarebbe però necessario avere poi il coraggio e la coscienza intellettuale di assumere sino in fondo le proprie scelte, comprendendone quindi i limiti e i reali contorni. Si eviterebbe cosl di proclamare "Vomito" una rivista che non ha precedenti perché la subletteratura non ha maestri da rivendicare, affermazione perlomeno eccessiva. La rivista è composta da tre sezioni: la prima, in cui sono raccolti sedici brevi racconti di giovani e meno giovani autori; la seconda dove in sei pagine sono condensati altri sedici racconti di cui si propongono la trame e un campione di scrittura; la terza infine, dove in venticinque pagine trovano spazio le autopresentazioni (con foto) dei trentadue autori, più quella di Sparagna, le quali, con qualche pretesa e non poca enfasi, dovrebbero essere un modo per "rovesciare il rapporto tra il lettore e il 'letterato', per rovesciare i ruoli, per narrare il narratore". Non è questa la sede per entrare nel merito del valore dei singoli racconti, per altro diseguali per tecnica e originalità, i quali dovrebbero dar corpo alla subletteratura intesa, secondo il quadro di riferimento tracciato in apertura da Sparagna, come "cosa mai vista" (sic) che dovrebbe essere "liberazione della lingua dai lacci della lingua letteraria" e "rinun-. eia alla letteratura come tradimento e menzogna del nostro ininterrotto e quotidiano cambiamento delle parole". Dunque, se "la letteratura è assonanza", allora "la subletteratura è dissonanza", e i suoi protagonisti non sono "i discepoli attenti di nessuno, ma i ragazzi cacciati di classe"; essi da un lato, partiranno da "un volontario soggettivo, consapevole azzeramento del soggetto 'letterato' ", dall'altro, confermeranno che "ognuno si scrive addosso senza neppure pensarci", proprio perché "la vita (con cui la subletteratura è intrecciata, ne è un aspetto, e nemmeno il più 'letterario') è fatta di questi fuochi, di carne di neve di cuori che sbattono e dolori e ansie, cosl come di piacere che stravolgono il senso e la 'misura' ". Cosl, conclude Sparagna, "la nostra è una parola, una spiritualità fatta di materia, di pelle (...), una cosa che siamo noi stessi, il nostro corpo e tutto quello che abbiamo fatto". Come si vede, "Vomito", dopo aver sottolineato la propria estraneità all'universo della letteratura, finisce in realtà per proporre una poetica in cui coesistono, non senza forzature e contraddizioni, richiami e motovi della letteratura decadente e avanguardistica quali il rapporto arte/vita, lo spirito di provocazione, l'opera intesa come scarto rispetto alla norma, l'abbassamento dell'io e, al contempo, la centralità dell'io nell'esperienza della scrittura viscerale; insomma, una serie di indicazioni che riconducono la subletteratura all'interno di coordinate già ampiamente sperimentate e ben presenti nella tradizione letteraria. Una proposta dunque non del tutto chiara e corretta, che sembra però rivo!-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==