dell'immaginario. Il video permette un dialogo tra le due cose - e questo è il suo elemento più originale e, secondo noi, attuale -, una specie di compenetrtazione, come se oltre a guardare la televisione, se ne fosse anche guardati... Abbiamo cercato di mettere in rapporto un elemento audiovisivo con uno spazio ambientale, perché lo spettatore potesse vivere la situazione non da spettatore ma da "visionario": entrare in uno spazio, essere "contenuto" in una atmosfera, e poter fruire liberamente di una serie di messaggi audiovisivi. Il racconto poteva essere organizzato non solo in sequenze temporali, ma anche in maniera spaziale, distribuito nello spazio in modo da permettere allo spettatore di organizzarsi un proprio modo di seguirlo. Abbiamo presentato a Venezia, a palazzo Fortuny, Il nuotatore, che era costituito di ventiquattro monitor in fila su cui era rappresentato il limite in una piscina tra acqua e aria, e che erano attraversati da un nuotatore, avanti e indietro, un televisore dopo l'altro. Il tutto dentro la vasca vuota di una piscina che avevamo fatto ricostruire. Insieme all'attraversamento orizzontale del nuotatore, all'infinito, abbiamo messo nell'arco di un'ora cento piccoli frammenti, sempre ambientati nell'acqua e ognuno in un proprio monitor (cose minime: un pallone che cadeva, un'ancora che scendeva, ecc.). Chi assisteva era colpito dal movimento del nuotatore, ma poi si appassionava all'attesa dei frammenti nei vari monitor, veniva stimolato un processo di attivazione sensoriale - non so come definirlo - una specie di gioco a prevedere e capire. Dopo alcune installazioni molto più concettuali, c'è stato Vedute, ancora a palazzo Fortuny, che però il giorno dopo l'inaugurazione ha chiuso perché il museo era pericolante. C'erano dodici telecamere nella città che ne ispezionavano dodici parti, trasmesse in dodici inquadrature in una sala del palazzo preparata secondo una scenografia minima che richiamava la sala della guerra del Dottor Stranamore di Kubrick. A queste immagini si sovrapponeva un segnale mandato da un registratore che con un procedimento di cromakei, di sovrapposizione, faceva saltare uno-due personaggi dentro un monitor, per una breve azione, trasferendoli poi dentro un altro monitor e costringendo lo spettatore a seguirli da uno all'altro; segmenti di racconto che si annunciavano via via. Ultimamente abbiamo fatto uno spettacolo teatrale con Giorgio Barberio Corsetti, adeguandoci a un mezzo che non è di nostra appartenenza. Qui il dato più interessante è stato quello di confrontarci con la poetica di Giorgio, molto emozionale e lontana dalla nostra, che ci ha aiutato a scalfire una certa nostra rigidità strutturale. Con questi lavori riuscite a viverci, o fate altri lavori, avete committenze più "regolari"? Lo Studio Azzurro è nato come uno studio professionale, con una precisa diBibliotecaGino Bianco mensione commerciale che non abbiamo mai rinnegato. Fa servizi fotografici per aziende, riviste, ecc., e nella parte video fa documentari, installazioni di tipo commerciale: le fiere, una grande azienda che vuole qualcosa di promozionale e ci delega il lavoro e la sua stessa ideazione... Questo permette notevoli spazi di sperimentazione. D'altra parte, il linguaggio dell'economia deve in qualche misura entrare a far parte del linguaggio della ricerca. La televisione è forse il posto dove si sperimenta di meno sull'immagine, e questo è davvero paradossale. Come te lo spieghi? Le innovazioni sono di tipo tecnico, mai di linguaggio... Una spiegazione è certo nell'incapacità di chi gestisce questi strumenti. In Francia, Belgio altrove ci sono trasmissioni sperimentali, per es. quelle dell'INA di Parigi, ecc. Il massimo che è stato fatto qui è stato Mister Fantasy. E l'unico spazio di sperimentazione è, in fin dei conti quello della pubblicità, che ha però i condizionamenti che sappiamo. La televisione ha forse altri problemi da quello dello sperimentare se stessa: deve toccare la grande audience e cercare sempre lo spettacolo, è ossessionata dalla ricerca dello spettacolo, e trascura del tutto lo spettacolo della ricerca. Nanof era un film, in sedici mm. Il cinema, evidentemente, continua a interessarti. Come ti stai muovendo per continuare a farlo? Il cammino di chi vuol fare cinema non può essere solitario, deve passare attraverso la collaborazione con altri. Il discorso di Indigena è fondamentale, perché crea rapporti, crea un territorio, un'atmosfera che può far crescere delle iniziative, delle cose, e noi stessi che in Indigena ci siamo associati. Indigena è uno dei punti di riferimento che promuovono il cinema indipendente. Il cinema "non indipendente" non ha capito di aver bisogno di una riconversione strutturale per rigenerarsi. L'ipotesi solo commerciale è perdente, quel cinema è un'industria fatiscente. Noi, come indipendenti, non saremo l'alternativa a tutto questo, ma forse possiamo essere quella cosa che gli nasce a fianco e che dà fastidio, fino a costringere a prendere atto delle sue ragioni, la spina nel fianco di un colosso morente o sonnecchiante. Quanto ai progetti, stiamo elaborando un soggetto, e prima o poi arriveremo a realizzarlo. Il terna è quello della memoria, della necessità della perdita di memoria. L'abbiamo preso da un piccolo trattatello di Luria sul caso di un uomo con eccesso di memoria, per cui ogni stimolo che gli viene dalla realtà è associato a un suo dato memorizzato, e il rapporto con la realtà che ne risulta non è mai diretto. È un po' come il dialogo dei televisori con lo spazio che si diceva prima. L'occasione produttiva non c'è ancora, ma io lavoro su una base di tenacia, e sono convinto che se uno vuol dire una cosa, prima o poi riesce a dirla. DONNEA CODADI PESCE Marcello Lorrai "Tutte le lingue del mondo" chiamano "alla stessa maniera le Sirene omeriche e gli aggeggi che scattano rumorosi. (...) Vista alla luce delle Sirene, l'ansia di sapere dell'uomo di oggi rispetto a quello omerico appare alquanto circoscritta: vuole conoscere se vi è un attentato alla sua proprietà". Non senza ironia, nel suo Le , sirene (sottotitolo, appunto: Da Omero ai pompieri), Meri Lao ripercorre e commenta le infinite metamorfosi della Sirene dalla mitologia greca, che le consegna già formate alla prima rappresentazione letteraria (tanto che Omero non avrà bisogno di descriverle, dandone per scontato l'aspetto, che è di donne-uccello e non di donne-pesce, tipo più tardo che si radicherà nell'immaginario al punto da spodestare completamente quello primitivo), ai moderni strumenti di segnalazione, nei quali, a ben vedere, si conserva, del tutto cambiati gli elementi che concorrono a formarlo, il carattere di ibrido, "incrocio mostruoso fra un organo di fonazione e una macchina", e si rinnova la capacità di "attirare la nostra attenzione e distoglierci dalla rotta". Nella forma dell'inventario, con un ampio florilegio di citazioni, Meri Lao presenta un vastissimo assortimento di sirene, attraverso i secoli, i paesi, i media: dalla Repubblica di Platone al "mostro di Ravenna", dalle rappresentazioni rinascimentali a quelle romantiche, da Giovanni Pascoli all'Ulisse di Joyce, da Debussy al Duetto delle Sirene Alice ed Helen Kessler nella parodia televisiva dell'Odissea interpretata dal Quartetto Cetra, dal repertorio delle Sirene cinematografiche alla recente pubblicità di un aspiratutto, dalle sirene di fabbrica a quelle, nella musica contemporanea, di Russolo e Varèse. Completato da un ricco corredo iconografico, il grosso volume (393 pp. oltre a 275 illustrazioni fuori testo, lire 24.000) è pubblicato da un piccolo editore romano, Antonio Rotundo. 47
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