Linea d'ombra - anno IV - n. 14 - maggio 1986

36 STORIE/BONTEMPELLI cuore, mi ha suggerito sùbito il contegno buono. Cioè, dopo essermi fermato qualche minuto, a testa mezzo china, di fronte a quello sconquasso, cominciai lentamente a camminare, traversando la vasta zona di rena, sotto il cielo buio alla volta del mare in tempesta. Con tranquillità camminavo, ma a fatica, ché appena mi fui mosso verso la gran bufera di montagne d'acqua urlanti e precipitanti, tutti i venti che le spingevano parvero stringersi in uno, che si mise a soffiare diritto contro me e m'investì in tutta la persona: così quel vènto mi tratteneva e contro il mio petto con le palme aperte tentava spingermi indietro. A fatica procedevo, e allora quello mi turbinava attorno come per strapparmi dal suolo e assorbirmi vorticosamente entro le nuvole che sempre più basse si gonfiavano nel cielo lividissimo. Pure io andavo avanti, e più il mare moltiplicava il fracasso, e a ogni mio passo vedevo le onde più immani e schiumose: ora battendo sulla sabbia vi scavavano abissi, entro vi si sprofondavano, ne risalivano intorbidate e fremebonde. lo avanzavo, perché l'amore mi dava la sicurezza. Lungo tutta la spiaggia da ogni parte, lontane dileguavano gridando lunghe fughe di piccoli uomini spaventati come greggi. Raggiunsi l'orlo estremo della sabbia, ove è una striscia di ghiaia. Tutte le acque parvero ritirarsi un momento per prendere forza, tutto il mare adunarsi in una sola grande onda altissima, che era cava e cupa come una gola di belva, e toccato il cielo s'incurvò e poi franò, diroccò giù a frantumarsi davanti ai miei piedi. Feci un passo ancora. Dove pezzi di onda arrabbiati leccavano furiosamente la ghiaia, i miei piedi toccarono l'acqua. Allora d'improvviso, anzi d'incanto, tutto il mare 'fu novamente sereno e turchino ed eguale fino all'orizzonte sotto il sole che sfolgorava, il cielo era sgombro, l'aria lucida e calda. Il mare era azzurro infinito, ma qua e là nell'infinito s'increspava di sorrisi di luce e di pallidi mormorii. Il mare mi aveva perdonato. Vidi alla curva del lontanissimo orizzonte una riga di piccole vele bianche, immobili, fisse sul cielo. Poi una si staccò dal cielo, e scese indolente nel mare. PER LA STORIA DEL TEATRO DANESE Trovatomi, nei dintorni di Copenaghen, privo d'ogni mezzo di sussistenza, ebbi la buona idea di rivolgermi al re di Danimarca, il quale mi fondò sùbito un teatro di prosa e m'incaricò di dirigerlo. Il teatro era bello, la compagnia era ottima, io lavoravo accanitamente. Recitavamo drammi antichi e moderni, di Shakespeare, di Cossa, di Fildang, miei, e d'altri. L'impresa ebbe sùbito un successo colossale: tutti i danesi traevano in folla al mio teatro. La voce si sparse anche per i paesi vicini alla Danimarca: in breve tempo, tutte le sere una quantità BibliotecaGino Bianco di scandinavi traversavano gli stretti per venire ai miei spettacoli. Ogni due o tre mesi gli architetti dovevano allargare la sala. Raggiunta così in breve un'enorme ricchezza, cominciai, tanto è instabile l'uomo e irrequieto, a sentirmi stanco di quella vita. Non era propriamente nostalgia del paese natale, perché in quel 'tempo (ero giovanissimo) di paese natale non ne avevo ancora. Era semplicemente desiderio di qualche novità e mutamento. Ma non sapevo come togliermi da quella situazione. Il re mi si era molto affezionato - come avviene spesso ai danesi - e non poteva rinunciare a me, non sapeva stare una sera senza venire al mio teatro, e spesso di giorno alle prove. Una volta che tentai qualche parola al proposito d'una mia possibile partenza, egli recisamente mi dichiarò che era risoluto a trasportare tutta la Danimarca in qualunque parte del mondo ov'io mi fossi recato. Allora pensai che tanto valeva lasciare ogni cosa al suo posto. Come sempre avviene nella vita degli uomini, la soluzione si presentò in modo assolutamente improvviso, impreveduto, impreparato, involontario e fatale. Ecco come andò la cosa. Una per una, tutte le attrici della mia compagnia s'erano innamorate di me, come accade; prima la prima donna, poi l'attrice giovine, poi l'amorosa, poi la madre nobile, poi le generiche: in gerarchia. Naturalmente mi ero rifiutato a tutte, e perciò tutte cominciarono a odiarmi. Ma ogni attore - secondo l'uso di quei paesi - era marito o amante di almeno una delle donne della compagnia: come vennero a sapere i miei virtuosi rifiuti, tutti uno per uno entrarono in gran furore contro di me per aver così male apprezzate le grazie delle loro compagne e consorti. In breve fui odiato dall'intera compagnia. Solo mi era rimasto amico un mio fido danese, il quale quotidianamente mi riferiva tutte le maldicenze della compagnia a mio riguardo. Io naturalmente non ne tenevo alcun conto: continuavo a fare il mio dovere, con molta amarezza nell'anima, ma mi guardavo bene dal parlare al re di queste cose. Un giorno il fido danese arriva a casa mia tutto trafelato con la lingua fuori, e mi racconta che il capocomico e la prima attrice sua moglie - d'accordo con tutta la compagnia - hanno stabilito di uccidermi. Avevano anche fissato la data: il 19 di giugno. Vi mancavano venti giorni. Perché aspettare venti giorni? Per una ragione raffinatissima: perché il 19 di giugno era l'anniversario del loro matrimonio. Io dunque dovevo . essere ucciso la notte del 19 giugno, sùbito dopo la recita; poi il mio corpo sarebbe stato diviso tra tutti gli attori e le attrici, un pezzettino per ciascuno: in ,tal modo sarebbe riuscito facile farmi scomparire. Che fare? Fuggire sarebbe stato vile, denunciarli al re o alla giustizia sarebbe stato poco simpatico. Non c'era che una via: arrivare prima di loro. Ucciderli tutti, prima del 19 giugno, prima della fine della recita della sera del 19 di giugno; ucciderli tutti insieme, per non complicare le cose; ucciderli in maniera che non si capisca che il colpo viene da me, per non dar dispiacere al re.

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