brava poco convinto: "È una strana faccenda". "Sarà perché tutti e due abbiamo ancora tanta energia da consumare. Non c'è altra spiegazione" gli dissi. Lo cercavo con un desiderio crescente, come se fossi spinta in questo dal padre del bambino. È il mio solo piacere, pensavo. Avrei voluto che mio marito potesse udire questa mia felicità, gridata a piena voce. Passarono due o tre mesi. Come avevo previsto, ci stancammo di questo nostro reciproco, ostinato interesse e senza alcun motivo particolare, il periodo di tensione durato quasi sei mesi all'improvviso ebbe fine. Mio marito mi domandò se avevo intenzione di sposarmi di nuovo e io annuii. Mi chiese di aver cura del bambino, di mandargli una fotografia e io annuii una seconda volta. Alla fine accettò che l'atto di nascita di nostro figlio fosse registrato a nome mio e che il bimbo fosse affidato interamente a me. Andai subito al tribunale sbrigai da sola tutte le pratiche. Dopo una settimana, il bimbo cambiò cognome. Guardai attentamente il certificato che mi consegnavano, provando una sensazione molto vicina al rimpianto. Avevo fatto tutto; non restava altro. Fil vrei dovuto chiedergli quanto era distante quel posto. lii Questo pensiero mi assillava sempre più, mentre i giorni che avevo passato con l'autista diventavano un ricordo lontano. Ma era poi davvero esistito quel paesaggio di cui mi aveva parlato con nostalgia, come se all'improvviso gli fosse tornato alla memoria? Comunque fosse, ormai doveva essere ben difficile stabilire dove era sorto l'edificio e dove la fossa della spazzatura. Il mio desiderio di conoscere quel posto era certamente assurdo. Me ne rendevo conto, eppure volevo davvero sapere quanto fosse lontano. Non mi interessava dove si trovasse e come fosse, volevo conoscere solo la distanza. Se era lontano o vicino. Forse era un posto poco distante, assai meno di quanto potessi immaginare. Eppure, se avessi incontrato di nuovo l'autista, sicuramente non gli avrei chiesto nulla. In un certo senso desideravo restare nel dubbio, godere di questo. Il suo discorso era stato troppo vago e proprio da ciò ricavavo un'impressione nitida come di un paesaggio visto in sogno. Appena quella scena mi tornava alla mente, subito avvertivo su di me il contatto del petto dell'uomo e del suo ventre. Quando avevo sentito dall'autista la storia dell'isola solitaria sulla scarpata dapprima avevo pensato che era un discorso orribile; ma se l'avessi rimproverato non ne avrei ricavato nessuna soddisfazione e così lo avevo lasciato parlare, incerta. Poi, avevo cominciato a pensare che la felicità di quei ragazzini era una cosa autentica. Indipendentemente dall'oggetto, la felicità resta felicità. Non aveva molta importanza come essa apparisse agli occhi degli adulti; questo non avrebbe mai potuto privarla della sua luce. L'isola della felicità. Recentemente ho trovato queste parole sullo spartito di un brano per pianoforte. Erano parole bellissime. Eppure mi sono sentita a disagio nel domandarmi quale immagine della felicità avrà avuto in mente l'autore, nel momento in cui componeva il brano. In quest'ultimo periodo ho cominciato ad allevare bruchi BibliotecaGino Bianco STORIE/TSUSHIMA con il mio bambino, che ora ha cinque anni. Ne abbiamo sei e abbiamo dato a ciascuno un nome: papà, mamma, fratello maggiore, sorella maggiore, bimbo, piccolino. Giochiamo prestando alternativamente la voce agli insetti. Faccio la parte della mamma: "Papà, i ragazzi stanno di nuovo litigando. Sgridali, per favore" dico, e allora, mio figlio chiede, assumendo la voce e il ruolo del papà: "Chi è che litiga?" "Il fratello maggiore non si comporta bene. Picchia gli altri e mi dà un sacco di problemi" rispondo. Mio figlio riprende, questa volta con la voce del piccolino: "Mi fà male! 11fratello maggiore mi ha picchiato!" Quando giochiamo in questo modo, sembra davvero di vivere in una casa di nani; andiamo avanti ininterrottamente, talvolta fino a notte fonda. Anche questo gioco ci è stato suggerito dall'autista. Proprio nel periodo in cui il bimbo prendeva il mio cognome, l'uomo gli aveva portato come regalo una libellula gigante, chiusa in una gabbietta. L'aveva trovata in montagna, durante un viaggio di lavoro. Era la prima volta che acchiappava un simile insetto. "È grande vero? Il re delle libellule". Ma l'insetto aveva già perso ogni vivacità e sembrava che non potesse quasi muoversi. Nella gabbia c'era un pezzetto di cetriolo sporco. "È assurdo" avevo detto spazientita. "Non è una cavalletta e le libellule non mangiano certamente questa roba. Vogliono solo insetti vivi". Avevo detestato l'autista che ci portava una libellula morente. Perché lo aveva fatto, se neppure sapeva come allevarla? Le strisce gialle sul corpo nero dell'insetto erano così lucenti da essere sgradevoli. "Pensavo che lo avrebbe mangiato, ma non è stata una buona idea". "Lasciamolo fuori, questa notte. Forse qualche insetto potrà entrare per sbaglio nella gabbia". Così dicendo, avevo portato la libellula fuori dalla stanza. Quella notte, mentre noi come al solito facevamo l'amore, le formiche avevano divorato l'insetto. Al mattino, quando avevo dato un'occhiata, avevo visto che erano rimasti solo le ali, la testa e il cetriolo. Avevo portato la gabbia sul tavolo e avevo detto a mio figlio di osservare bene quello che le formiche avevano fatto. "Piantala. Di primo mattino" aveva replicato l'autista di malumore. Il bimbo ed io seguitammo a fissare i resti della libellula. Improvvisamente desiderai sovrapporre l'immagine della mia precedente esistenza alla nuda forza vitale dell'insetto, che avvertivo per la prima volta. ' "Proviamo a tenere qualche insetto?" avevo chiesto a mio figlio. Aveva annuito, vagamente. Cominciai a interrogarmi su quale tipo di insetto avremmo potuto allevare. (traduzione di Maria Teresa Orsi) Copyright Yukio Tsushima 1978, 1985. 23
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==